09 maggio, 2009

Pz.n.108 Catrame e frantumi di condom

… mentre ti accingi a riprendere la strada. Il tuo stronzo filo d’asfalto. Da casa al lavoro e da lavoro al tuo buco. Il solito schizzo di muri. Sempre. Ogni giorno. Dalla mattina alla sera. Dal buio alle prime luci che schiodano. Col caldo, col freddo, nel ghiaccio e nell’afa che inchiodano. Di brutto. A crepare. In macchina, a piedi, col treno. Sotto fendenti di cielo o tra cementi compressi. Fra paralitici schizzi di luce e ombre che tardano a pisciare… sul dritto della tua strada. Sul rovescio del filo. Mentre ripercorri la solita, fottuta distanza. Dal primo dei rimpianti all’ultimo dei rimorsi. O magari mentre ti capita un sogno. Uno di quelli per cui ne vale sempre la pena. Ad occhi aperti e col cuore chiuso. A pugni serrati o con lo stomaco a pezzi. Nel nero che butta dal cielo. Nel bianco che manco t’accorgi. Con le tue cose. Che oggi ce la fai. Gira bene. Hai il nirvana dentro. Non può essere che tuo. Il mondo a colori. Finalmente è il tuo turno. Dopo mare di merda e scoli a piombo. Giù in fondo alla gola. Poi un giorno. Dopo i soliti secoli. Finalmente. La strada. Ti piace… è piena di sole. Hai messo punto e ti meriti un bonus. La gratifica ti spetta sebbene non sia proprio natale. E fra i secoli. Invece. Nella tua cazzo di strada con i tuoi schifi segreti, con i peccati che t’intasano saliva e palato, ma che ti rifiuti di dirli all’onnipotente e di darli a Dio. Il rettifilo, la piazzola, il tornante. Viscido catrame. La fermata dei bus, il semaforo, subito dopo l’incrocio. Poi il bar. E ti fermi. La tua strada si ferma. E da lì inizia la solita, stronza cazzo di storia. Oppure sei tu. A fermarti. Citofono, terzo piano, non fare rumore. Una porta che apre e una che schianta. Dall’ufficio, da una casa, da un albergo, dal solito posto. Da quell’ora. A quell’altra. Neppure un secondo di più. Dai vetri la strada di sotto. Aspetta. Ti aspetta. Fai presto. Avrà cura di te. La strada. Che da te ha imparato a memoria la vita.

Ricordo il catrame di Brno. Era caldo.
Una macchia d’inchiostro. Quasi una linea di grandine nera, con tutto il passato. Verso Sofia.
Aguzzi di pietra emergevano da sotto la pelle trasformando la strada in un passaggio di piccoli coltelli: affioranti più dei cattivi ricordi. Sulla schiena del cielo. Sul cobalto dei soliti rimpianti.
E su quelle lame sgocciolavano pensieri. E pirati.
Ricordo che da qualche parte era un tornante, poi era un lunghissimo rettifilo che interferiva col rumore cromato della mia “pupa”.
Nient’altro.
Soltanto io e uno sputo addosso di vento, aldilà era il gardrail. Due lame esposte all’idea del tempo. All’infinito, come i rimorsi.
Raramente erano le prostitute polacche, soprattutto bambine. Che giocavano con i trucks russi. Verso Sofia.
Verso l’inferno.
Talvolta il cielo s’abbassava di un tanto e di là potevi supporre un orizzonte. Una tappa. Uno di quei miracoli a portata di mano. Che potevi afferrare e legarteli dietro.
L’approssimarsi.
Ai lati, però, scheletri di bottiglie e di condom… a milioni. Frantumi ancora caldi di palati rosa. Ero sporco. Di nafta.
E di bestemmie. Le prime, nella mia vita. Le ultime da Brno.
Da solo. Sul catrame. Che il mondo era da quell’altra parte. Col pirelli fottuto e il cielo che cominciava a buttare nero. Era caldo. Nel frattempo, montava il mio nuovo nirvana. Molto meno soul di quanto non volesse farmi credere lo stronzo silenzio a quell’ora. Buttava storto. Più della storia che avevo macinato in quei chilometri al tempo futuro. In mezzo ero io. Da ore, fermo. Al tempo presente. Sul vapore dei condom e quelle vene di vetro.
Il cielo s’assottigliava sempre più, fra breve avrebbe fatto sera. Buio. Cieco. Nero. Ai lati era niente. Solo boschi e io, ancora. A parte il gardrail e quel “raramente” improvviso di polacche bambine. Si, soltanto io. Quasi fossi in mezzo a me stesso e non poterci fare nulla. Sulla strada, piano, andava vedendosi il freddo.
Nessuno passava. Neppure un ricordo. Neppure il più fottuto.
Fra maggio e giugno, pensavo, il mondo comincia a scoparmi.
A Brno. Sulla E66. Quella che cola da Mosca, penetrando chilometri e chilometri aguzzi di vetro e aliti macchiati di condom.
Era freddo. Avviai il bicilindrico per scaldarmi.
Calcolai le distanze. Boschi da una parte, trenta chilometri dall’ultima pompa e cinquanta verso la prossima. Gli infiniti.
Fra quelli, molteplici occhi. Di zingari rumeni. Come fendenti.
E pronti, come rapaci. Radenti. Veloci.
Nella mia bisaccia una lama da ’10. E il mio respiro mozzato e intasato dal diesel peggiore d’Europa.
In lontananza un frastuono di pistoni e nafta. In lontananza. Dio.
Uno di quegli enormi “600” cavalli. Davanti i miei occhi e di un dito sopra lo stupirsi della mia dissenteria.
Avevo sete. E freddo. Non m’importava. Avrei bevuto l’acqua peggiore, da prendere a morsi, nonostante mi fosse puzzata di morte.
Mi prese invece un angelo. L’angelo di Brno. “Ungherese di Buda, piacere: Siciliano di Aziz”.
Irrefrenabile solitudine e parlammo parole impossibili.

Per avere cavalcato un orizzonte sopra quel dito di vetri e di schizzi.
Legammo la “pupa”. E i miei ricordi ai tiranti d’acciaio.
Verso Brno. E i miei rimorsi.
L’inferno prima della Transilvania.
Ricordo d’esserne uscito molto tempo dopo.
E di quell’angelo non ebbi neppure la prima lettera del suo nome.
Come te. Mentre mi leggi, su questo nero filo di grandine.
E aldilà del tuo gardrail?
Come quel maredentro, fra gobbe rosse e sedili neri. Fra le distanze, ineccepibili come il silenzio. Ormai tutto al tempo passato.
Amico, cos’è la tua strada? Soprattutto: dove ti porterà il suo lungo filo di pece?


foto di andrea de luca ed elisabetta costantino

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