24 settembre, 2010

pz.113 (dio) di vitobenicio zingales

pz.n.113 (dio)

e gli arrivavano. a palate. come cazzotti di merda. “bam!”, ai fianchi. “bam!”, in sagoma, un dito sotto i coglioni dell’anima. come a cercarsi la punta beneamata. gli giungevano, a schizzi. come maionese in faccia. incolori. senza odori. sdentati o con gli incisivi pronti al sangue e addestrati allo sperma più eticamente invitante. da ogni parte. senza distinzione di nazionalità, di sesso e di religione. dalle periferie più frantumate al frantumarsi dei sobborghi più infami. dalle città più glam, da bere e fottiti veloce, alle province col culo sempre in calore, da fottere e crepare in campana.

ridondavano. come pesci sul pelo d’acqua, a cercarsi quel filo d’aria buono solo per quell’ultimo tentativo: the dream of a scream. eccedenze di squame, là a rivestire un secolo di fallimenti e di deprimenti intendimenti. un close up lento. metallico. una sequenza agghiacciante. oscena. triviale, oltre il limite segnato dalla più compassionevole bestia in natura. indecente, aldilà della più perturbante idea barocca.

parole. e del senso più peccaminoso del delitto.

came from all over the world.

da vecchi rincoglioniti e da piccole mignotte. da critici d’arte, full time, col culo ormai andato e da poeti, manicomiali, in esubero d’alitosi. senza età. privi di quel minimo senso del pudore o di quel cazzo di un motivo apparente. d’un fiato, a gocce. in vena o in quel posto. screziati al metallo o maneggiati al polistirolo espanso. inturgiditi da un lappare pornografico. e rinvigoriti da quelle “certe decadenti” promesse di prestazioni particolari. trasudanti. eccitati. lividi. marci. depressi. cattivi.

congenital liars.

mi permetta di scrivere che le sarò particolarmente “grata” se potrà prestare quella giusta considerazione al mio romanzo.

sluts.

“bam, bam!”, così … assetati, infoiati, affamati.

di vita. di celebrità. e di vederselo stampato una buona volta il proprio cazzo d’un nome. e gli arrivavano. misti a spruzzi e tutti in un fendente. che in tre o in cinquecentomila caratteri dicevano di dio o di come e dove trascorse la gravidanza la madonna ai tempi della croce. sputtanando pruriti e misteri, svelando gli orgasmi segreti dei santi e quella inedita dolcezza di satana.

di storie torbide. di menzogne arrapanti e di casalinghe arrapate. chi scopa chi, chi scopa come, chi scopa trans, chi scopa trash. il nonno che fotte l’infante e l’infante che scopa on line. il prete sadico e il pedopotente, l’uccello irreprensibile della ministra e l’insospettabile vagina dello zio, il cristo di un dio e la santa barbara dei pompini. gang bam, anal, fetish e blowjobs.

così: bam, bam!

e porca puttana se non arrivavano. puntuali. come sempre. impilati collo spago. e arrotolati l’un l’altro ad un filo di placenta adesiva. giorno dopo giorno. con quel mare di allegati. in fila, flaccidi, virulenti, imploranti, turgidi. simulando una di quelle scopate puttane o uno di quei giochetti a tre. “cazzo!”, una montagna di carta. a mezzo fax, per mail e raccomandata. in pdf, zippati, in word o in uno di quei formati che è sufficiente a fotterti fegato e cervello dopo aver capito come funziona l’ennesima minchia di programma. ma era il suo stramaledetto lavoro. spalare tra tonnellate di merda per beccare quello giusto. quello attrezzato e con gli attributi seri e duri. si fotteva la vita, ma se “acchiappava” era fatta.

era il suo mestiere. era l’head writer.

dio.

un fantasma. Il migliore.

uno di quelli che lo vedi e la vita ti pare bella. pulito. con le guance lisce e il ventre moderatamente piatto. con quel sorriso a ciclostile che, da dove lo guardi, è sempre il sole. meno di quaranta e tutti tra i denti. un dopobarba che levati e con quella certa puzza sotto al naso che fa sempre visual malgrado sia lì lo stronzo a prenderti per il culo. la cravatta fashion sullo scolorito dei yeans e la voce calda. che la senti perfino tra le righe della solita cinica lettera commerciale.

gentile signore-a pur apprezzando la sua meritevole opera spiace comunicare che “storie di campagna” non può essere inserita in nessuna delle nostre collane editoriali.

nel ringraziarla per l’attenzione rivolta,

si porgono distinti saluti.

l’editor.

meritevoli un cazzo! seicento pagine di minchiate col botto e l’allegato curriculum vitae, inclusi mazzi d’attestati e di medagliette tricolori.

l’editor.

dio.

spett.le edizioni

le invio il mio romanzo “aurora all’alba”, significandole che quella che leggerà “e” soltanto una prima stesura. allego alla presente info e curriculum studiorum.

ma con tutto il dovuto rispetto, ma chi minchia volete che vi legga?

trentadue denti. moralmente corretti.

dio.

32 anni. italiana e quinta sopra. romana di scampia. atea praticante. laureata, due volte. impiegata a tempo perso. bionda naturale e con quella certa propensione a tirare di bocca in caso di necessità.

32 anni di morbidezza vellutata e doppio velo ovattato. al suo decimo anno d’aspirante scrittrice e alla sua quarta lettera. … e con la medesima e senza accento.

c’aveva fatto il callo, ormai.

dalla mattina alla sera. quarto piano. stanza 17. neon alle pareti. quattro scrivanie a giro. due mac e il 120 conditioner alle spalle.

bastava solo un rigo. un fottuto, dannato, stronzo rigo. e la vita, in quel feto di carta manoscritta, andava in buca. dalla mattina alla sera. quarto piano. stanza 17. neon alle pareti. quattro scrivanie a giro. due mac. il 120 conditioner alle spalle e il grande bidone in metallo ad un passo dalle sue ormai inservibili pupille.

a lui bastava un rigo.

al tatto.

era l’editor.

cieco.

dio.


Foto di martina zingales

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