20 novembre, 2010

pz.n. 120 (il giorno perfetto. "alla fine, aprimi e divorami".), prima parte. di vitobenicio zingales

(suspiria)

era uno di quei giorni. uno di quelli per cui ne vale sempre la pena, eccome. era uno di quei giorni che comunque ti scoppi il cuore c’è d’andarci fieri. a detta di frankie quello era il giorno perfetto. e in qualunque modo l’avesse presa il mondo, quel giorno, per lui, sarebbe risultato tanto importante quanto il giorno del primo uomo sul culo della luna. avrebbe potuto scommetterci chiappe e attributi, ma quel giorno era il più azzeccato e fottuto fra i giorni del suo tempo del cazzo. non fu facile stabilire quale tra i pretesti avrebbe potuto essere il migliore, ma probabilmente “quello” ne innescò la “circostanza”. se fosse stato il caso, o altre simili cazzate, a spingere sulla storia risultò assai irrilevante, considerato che nel costruire la fortuna dei suoi effetti i peggiori detrattori sono i migliori fra gli uomini comuni … e la storia, si sa, evoca solo eroi, santi e luride puttane. credetemi: al di là di quanto potranno le parole, su questo pezzo di carta, risulterà non facile, alla fine, elevare uno di quei giudizi tanto severi quanto ragionevolmente opinabili e non solo per tentare di dare corso alla più strampalata o sommaria delle disquisizioni etiche. se volessimo indagare più a fondo la stronza cosa, dalla parte opposta alla più lieve delle convinzioni morali, risulterebbe alquanto sconfortante pensare d’essere stati sfiorati dal più singolare strumento del sapere: il dubbio di dio.


era uno di quei giorni. col caldo tra i testicoli dell’anima. uno di quelli per cui la storia
 avrebbe atteso anni, secoli addirittura. era il giorno perfetto e per frankie tutta la cosa avrebbe potuto risolversi in una fottuta manciata di secondi: sai una di quelle scopate per levarti all’istante quello stronzo di un santo prurito? gli effetti sarebbero stati così devastanti che anche il più miserevole fra i dettagli sarebbe stato tradotto in uno di quei potenti psicoassunti, tra archetipi e falli e, fanculo ai moralisti del cazzo, frankie pianificò la faccenda con quella certosina precisione da sconvolgere anche il più spietato fra i più certificati degli strizza. frankie pensò che era tempo di mettere ordine e di fottere lo sporco culo del mondo. immaginò che fare pulizia in casa, oltre ad essere un fottuto dovere, era soprattutto uno di quei sacrosanti diritti da esercitare per rimettere a posto il già minacciato naturale e generale sistema delle cose. disimparò ogni elemento discordante con la sua nuova indole e, soprattutto, si collocò oltre lo spettro della colpa. e del ricordo.

non ci volle molto in termini di tempo, non occorsero che due giorni e due notti. quando è la paura, diceva, basta la più feroce fra le consapevolezze … a disincagliare la coscienza dalle conseguenze di un abisso. ecco perchè era perfetto: frankie aveva dimenticato la paura. da tempo andava addestrando la sua coscienza, spalancandone le gambe, e da tempo, ormai, cresceva in lui quella ardita consapevolezza che per potenza e furore sarebbe risultata pari solo all’avidità degli dei. semplicemente riconsiderò i termini di un contratto, immaginando di ristabilire la giustezza del peso tra l’eludere e l’effetto. fra governare il fuoco e gestirne il mito, pensava, s’insinua il più emblematico e seducente dei dubbi: disimparare dio o divorarne gli ultimi resti?

in quei giorni frankie sottopose le sue convinzioni alla più rigida fra le revisioni e se esecrabile fu la lettura di alcuni testi occulti, dal quinto vangelo all’essenza dei colori, dal molteplice di fibonacci al segreto dell’ultima cena, esemplare fu la sua scelta: negare a dio l’eccellenza di un evento.

si alzò da letto alle prime luci dell’alba. di sotto era la periferia consueta, col ridondare solito dei tralicci e delle potenti torri di cemento armato. le palerie s’informavano ai sempre soliti e molli giudizi estetici, là ad inforcare le algebre del potere e a dichiarare salvanti gli ultimi oblii architettonici. avrebbe dovuto mettere in ordine il solito bordello, ma considerate le imponenti evenienze, eluse gli obblighi domestici e trasferì i suoi sommi convincimenti fra le penombre del grande salone. si distinse come non mai tra le cose del buio, impedendo l’emergere dal nero al più impercettibile dei rumori e di causare quindi, involontari, ma irreparabili danni. chiuse la porta e si diresse verso l’opaca vetrata. da qui avvertì la città. a ondate. insinuanti. vetro, metallo e sbirri: in termini di approssimazione, dio e falsa enfasi creativa. escluso il torpore della luce, inutilmente debordante di là del grande muro, fu quel cannoneggiare di silenzi a disegnare la vita intorno. alla fine, malgrado il coinvolgersi ennesimo dei meccanismi, fra vicoli ed intermittenze, il tutto apparve finire nella eco della più inconsistente ripetizione di un atto. e il furore tornò tiepido, come se la percezione delle cose attutisse nel compiacente riprodursi meccanico della città.

frankie guardò attentamente le cose di sotto e il sistema che là, invano, tentava sconfinare dalle più che ormai consolidate certezze urbanistiche.

tac, tac … una strada.

tum, tum … un arredo chiesastico.

tac, tac … una menzogna geometrale.

nei suoi occhi irretiva uno spazio sconosciuto e in questo rifletteva la sua intima e più che complessa natura. mirò in alto. di più, nonostante l’ingombro dell’anima. si allontanò talmente tanto dalle sue originarie aspirazioni da osare le più pure rappresentazioni dell’essere, ma come per la strisciante paleria di sotto, di quelle ne afferrò solo i più elementari concetti e i meno assoluti tra i fondamentali. pianse. spalancandosi nella rabbia. istanti. si respirò nel sangue e tornò alle sue convinzioni: sono il centro del mondo: adesso è necessario perfezionare l’intenzione. tornò al sorriso e con quello al convincimento liberatorio. si allontanò dal vetro e lentamente prese il legno della sua scrivania, là a due passi. la sua natura sostenne compiaciuta gli ultimi slanci della colpa e la sua ostentata autorevolezza lasciò il passo agli impulsi più oscuri.

il sorriso si trasformò in uno di quei ghigni che nella savana sanno evocare solo ira e terrore. controllò l’ora. la pendola indicava un quarto alle sei. frankie pensò d’essere pronto. da lì a poco avrebbe attribuito all’onnipotente dio la più miseranda tra le colpe.

di là, nel silenzio, tra andito e biblioteca, era la sua famiglia.

avvertì l’equilibrio del mondo nella totalità delle cose là giacenti in basso e respirò quel tanto d’aria da placare gli ultimi laconici fermenti d’umanità. a più riprese inghiottì quella rimanente miscela di ricordi per impedire alla coscienza di venirsene fuori, nel momento meno opportuno, con uno di quegli sbrindellati meccanismi del cazzo.

nei suoi occhi un’implacabile onda rossa defluì con tale potenza da tagliare a pezzi anche il più involontario tra gli impulsi umani. era pronto. con la mano sinistra impugnò una striker a moto circolare e simultaneamente, nella sua destra apparve una minacciosa e terribile lama.

da lì a poco avrebbe dovuto compiere la sua grande opera: spalancami il sangue, come se l'anima avesse le gambe. chiedimi se, per ogni dente, l'acciaio della striker chiede all'eludere il peso della colpa. alla fine, aprimi, insegnami a disimparare dio. e divorami.

sola, in lontananza, e molto più distante di quanto non potesse comprendere la morte, in quell’istante, era la città.

le farà piacere, io l'amo.

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