
quadrilogia del freddo (epilogo)
quando il tempo è viola la nostalgia allude al rimorso e l’eludere non concede alcun rifugio alla memoria.
era freddo … che il ghiaccio da solo non avrebbe potuto spiegarne il senso. era freddo, come quando è il rimorso a nutrirti la vita tra le cose del sangue. sebbene fosse il sole, il freddo tramava su per ogni orlo che tentava la nostalgia. solo agli incerti e ai bastardi veniva bene quel freddo nel cuore. e forse era troppo freddo perfino a chi ne desiderava l'insistere di quel ghiaccio.
la guardava. attentamente. ne ammirava le linee, quasi perfette. gli spigoli, le pareti laterali, la base, la superficie superiore. una combinazione esemplare di vertici e di angoli. silente, in terra e in attesa. lentamente ne perciava quella solubile difesa, quasi a volersi immischiare alle cose là dentro abilmente impagliate.
i suoi inverni e le sue estati … algebre imperfette e consonanti spezzate.
“non parli? eppure dovresti. una parola, almeno un cenno.”
“cosa dovrei dirti … la tua vita? non ti basta ancora?”
“lascia che sia io a giudicare … “
“ti è stato concesso … e più di una volta … “
“vorrei … potrei rimediare … “
“hai già esaurito tutto. forma e sostanza erano più che abbondanti … “
“mi sono perso …“
“ … e hai calcolato male.“
“ma ho pagato.”
“senza rinunciare.”
“a cosa avrei dovuto?”
“non sei riuscito a placare la tua fame.”
la valvola, il tubo. tic, tac, tic, tac. il palmo, le dita.
la guardava, da parecchi minuti, come la sua vita, da tanti anni, ormai. in silenzio, in una china di piombo, la sua vita alle spalle. la stanza era vuota e l’eco fischiava sulle pareti inermi e tremendamente pallide: una sinapsi afona e perdutamente aristocratica. la lampada, giù per un filo a piombo, soverchiava l’ombra, là sommariamente diffusa e gli istanti, inutilmente debordanti più del suo rimpianto. la guardava. era l’ultima ad essere rimasta. ferma, incolore e inodore. era l’ultima. là dentro, magistralmente ripiegati, erano … ricordi. perfettamente impilati e giudiziosamente incartati. ricordi.
“sei come quello che hai e quello che hai è meno di quello che avresti voluto essere. il tempo ti avrebbe concesso l’ultimo rimedio, ma avresti eluso la memoria per continuare a compiangerti.”
“avrei imparato altri ricordi … avrei attribuito un peso diverso alla memoria …”
“non avresti sopportato il dolore …”
“il dolore?”
“hai temuto la fame, sempre. non sopportavi l’idea di perderne il possesso. il dolore, ritenevi, era troppo grande per rinunciare alle più svariate forme di “cibo”. hai preferito divorare … di tutto e con crescente avidità. temevi di perdere il controllo sul mondo … e per non lasciare ad esso le pertinenze più modeste, t’inventavi dubbi, cause, nessi …”
“ho pagato il mio debito …”
“è un conto senza fine …”
“è ingiusto!”
“ti sbagli: è perfetto equilibrio …”
“quale dio può questo?”
“tu soltanto. tu come uomo e al pari di te stesso”.
“non c’è appello …”
“tutti gli appigli di cui disponevi li hai corrotti e corrosi.”
“non ho speranza …”
“dimora sempre in te, ma non vuoi sentire … ti compiangi evitando il dolore, ancora.”
“non scorgo alternative, né soluzioni.”
“le hai avute … esitare è stato facile e pur di evitare il conflitto hai preferito … cibo, quel genere di “cibo”.
“non ho più nulla, non ho più fame …"
“ne sei certo?”
la guardava. l’aveva davanti, a due passi dal suo inutile rimorso. era così stanco da sentire la sua pelle appesa ad un ultimo, ingombrante soffio. aveva freddo, come l’inverno appena giunto nella nuova casa. là dentro erano parole e promesse, infanzie caparbie e il suo ultimo amore capace.
dentro una tazza, era il mare, eterno ed intemperante. poi era la sabbia, inessenziale e rassicurante. gli scogli e l’impennarsi dell’orizzonte giungevano col primo treno verso nord. lì era tutto un frastuono biondo, frizzante come quando si ha tutto il tempo per desiderare molti gelati ancora. erano le onde e il crepitio dei bambini accanto. la spiaggia e le mille suggestioni, là convesse, lasciavano che la bellezza si perdesse tra le forme solite dei bagnanti. erano … colori. e aromi. semplicemente colori e odori. sulle rotaie, alle spalle di quel tempo, sulla solita tratta, tra la rocca e il ricurvo dei platani, volava l’espresso sud, rilasciando alterati attimi di ferro e inespresse gocce di speranza. al suo passaggio, le schiene facevano come stupirsi, invitando i tanti a levare gli occhi verso le derive e l’imprendibile linea, là con dio, a galleggiare sull’acqua.
“ricordi? mi prenderò cura di te … “
era il mare. e il suo ripetersi inequivocabile ed eterno, più di quanto si possa immaginare in una vita, in questo e chissà in quale altro mondo. era il mare, irrevocabile. l’estate celebrava il suo momento, con i mille sguardi affacciati sul petto robusto di una delle tante signorine, là a dorare l’anima, e con i maschi a flettere i muscoli tra gli incisivi degli occhi. disposti in fila, ci si perdeva in quella leggerezza ritrovata … e non stupiva quel rigenerarsi d’ozio. l’afa, nonostante la famelica avidità, allietava anche il più indisponente dei calabroni, lì svolazzanti sul sinuoso ripiegarsi di tendini e di lievi medaglie di grasso. dal lido, col sole a piombo, girava il motivo cannone: il più richiesto e il più dannatamente letale. le note, dal juke box alla prima boa al largo, furoreggiavano con maestria ed autarchica solennità.
ma era il mare.
sottacqua ridondavano scintille e guizzi e le ore, in superficie, gocciolavano a tratti, impedendo al restante tempo di porsi anche la più lieve tra le domande: era la vita, in agosto, tra alghe e getti densi di schiuma oleosa. sul lungomare, il vespaio continuo ed incessante di macchine e motocicli recitava l’omelia quotidiana, incitando quelli di sotto, a levare un grazie a dio, per quel buco di sabbia e sughero trovato all’alba. la misericordia era solo per alcuni, per i ritardatari incombeva l’apocalisse. i riti erano i soliti e dipendevano dalle economie dei bagnanti: ombrelloni, tende, tovaglie, tridenti, pinne, maschere, salvagenti, canotti, soffietti, borsefrigo, teglie, alluminio e … plastica, tanta, tantissima plastica.
e c’era lei.
sorrideva. sentiva ancora un po’ di vita e quel maredentro, tra i polsi e le vene in fondo. erano ricordi. quelli più vicini … affioranti piano e con quella dovuta prudenza che, per non scomodare quelli della porta accanto, ebbe, in quegli attimi, la compiacenza di trasformarsi in livida eleganza. sentiva ancora un po’ di vita, negli occhi, piano.
tic, tac, tic, tac … una di quelle svegliette cromate, boriose e a lancette. il tempo divenne viola.
aveva sonno.
“ho freddo."
“lo so, lo sento anch’io.”
“tu?”
“non hai il coraggio di chiedere …”
“chi sei?”
“non hai compreso ancora?”
“avrei dovuto?”
“avresti dovuto imparare a riconoscermi e a prenderti cura di me, ma per ogni ammonimento hai trovato un sicuro e oscuro rifugio.”
“chi sei?”
“sono il tuo cibo e la tua ossessione, ma anche la tua parte migliore e più ragionevolmente vera.”
“come avrei potuto?”
“semplicemente avresti dovuto … volere …”
“aiutami …"
“non posso. guarda in terra …"
“dove …”
“ad un passo, da te …"
“cosa …”
“non fai più ombra …”
tic, tac, tic, tac, tic, tac … una di quelle minuscole capsule che orientano il mondo a rioriginarsi … perfetti.
la sua adorata lù fu la prima … guaendo, piangendo, quasi sognando.
in cucina.
nessuna finestra alle pareti.
soltanto lui e solo un po’ di pioggia, sull’ondalux della veranda.
se avesse potuto avrebbe optato per qualcosa di più veloce e sbrigativo, ma non aveva altro che quella misera riserva di gas e, con un altro sistema, avrebbe dovuto addormentare prima lù e i due piccoli meticci, dopo. non avrebbe retto e preferì farlo con la sua adorata famiglia …
rigo, il primo dei due soriani, scelse il suo solito posto. rizzò il pelo e prese il petto del suo amato umano. riga, barcollando un po’, seguì il maschio marrano un istante dopo.
prima d’addormentarsi, la guardò un ultimo istante:
“alto. fragile. maneggiare con cura..”
era freddo.
lo sentì tutto, indomato e tenero.
e sorrise.
ricordando il mare.
quadrilogia del freddo (pzz.n.122.123.124 e 126) presto in scena, per stefania bladenburgo. regia di vitobenicio zingales, luci e retroproiezione francesco ferla.
del freddo del cuore, della fame dei sensi, dell'avidità della mente, della paura del dolore, della volontà che non può volere se stessa.
RispondiEliminaO forse soltanto dell'"insostenibile leggerezza dell'essere". leggera, come il gas.
bentornato ai tuoi pezzi VBZ, Acrux
grazie, spero poter portare la quadrilogia, prima dell'afa estiva, con la straordinaria stefania bladenburgo a calcare la scena ...
RispondiElimina