24 maggio, 2012

vorkuta breeze, l'ultimo viaggio, di vitobenicio zingales


vorkuta breeze


al di là della sbarra era quell'ultimo pezzo di strada, l'ultimo, prima della grande promessa. del viaggio restava solo quell'unico tratto; ripreso il passo, oltre quel solco, avrei dovuto "incontrare" finalmente la mia ricompensa: la sosta, la meta ... e la promessa. ero stanco. fatto di bitume e vento cattivo. avevo accumulato tonnellate di polvere e di acida pioggia. non era caldo, ma sentivo dentro, quella specie d'incendio che il viaggiatore prova al termine di un grande viaggio: nelle vene erano più che voraci fiamme. sentivo d'essere rotto dappertutto e nella mente non vibrava nulla che non fosse legato alla vicina sosta, al di là della sbarra. erano silenzio e steppa davanti ... silenzio e steppa alle spalle. oltre la linea ferrata, il mare. un tratto d'asfalto, dritto, in discesa, penetrava quel "sapiente caos" di cespugli fin sotto l'orizzonte. due chilometri, forse tre. il sole preparava il tramonto e la luna incastrava tra il dire delle nubi. il sole e la luna, in quel cielo lettone, tra jurmala e riga, alimentavano ventagli di tonalità impreviste, dal magenta al viola intenso, e a piombo sul mar baltico. mi ero lasciato dietro la E22 e avevo attraversato quel mondo di licheni a nord est di riga. ad eccezione della strada e della linea ferrata di fianco, non c'era altro. spighe, licheni e l'urlo dei miei ricordi, fra il cromo e i muscoli di jessie. desideravo una notte intera di riposo, ovunque. in attesa del passaggio del treno, assaporavo il momento. il mio "ferrini sottozero", in pile, compagno di mille battaglie, avrebbe atteso la mia speranza.

"deciso?"
"ho altra scelta?"
"fino all'ultimo ... puoi sempre cambiare idea ..."
"mi conosci, ernesto ... "
"ti conosco fin troppo bene, coglione ..."
"dammi il pugno ..."
" ... occhio vivo."
" ... giù tu giù io!"

queste, tra me ed ernesto, il mio amico di sempre, le ultime parole ... prima del viaggio. da quel solito cazzo di un rito ... la mia jessie e tanta, tantissima strada. il viaggiatore esperto sa bene che in realtà si fa strada ancor prima di prendere il bitume. talvolta sono i ricordi, spesso i rimpianti ... scelsi con cura quali, tra questi, legare al mio viatico. mia madre e mia figlia, ricordi e rimpianti. risultò sufficiente una sola cinghia elastica e con questa legai a "quelli" la bisaccia di pelle, ricolma, per la circostanza, di nuovi argomenti. mappe, una fiaschetta d'assenzio, chiavi in pollice, set lampade, candele, olii, una lama da "16", una compatta kodak, il moleskine 2008 e la "foto". nella borsa serbatoio, invece, l'occorrente giusto in caso di tempesta. pochi ricambi e molti comparti vuoti, nella mia bagster a magneti; poche speranze e il medesimo sogno, nel mio cuore a ghiaccio compresso.

ero in piedi, di fianco a jessie. il sole, sotto l'orizzonte, illuminando dal basso la luna, disegnava nel vento un raro veticale. sull'acqua, "soltanto il mare". il mio treno, nonostante non sapessi da dove e a che ora, tardava a giungere su quel tratto ferrato.

le soste, in viaggio, sono capaci ...

chissà perchè, ma quel solco si trasformò nella mia mente in una sorta di lungo spartitraffico: da una parte l'"ormai", in mezzo l'"adesso" e dall'altra ... dall'altra, forse, solo una maledetta illusione. aspettavo che quel treno passasse e mi concedesse la strada. lungo quel tratto in discesa, avrei incontrato il mio altrove e forse un pò di vento ... girai le spalle alla sbarra e raccolsi, come da terra, tutto il mio passato. la mia vita prese a scorrere, lungo l'inconciliabile parallelo, sbiadendo tra gli ultimi pali in lontananza. disimparai per un attimo l'ingombro della malinconia e tornai a guardare il mare, oltre la sbarra, immaginando, tra quelle onde, la grande promessa.     

quando tutto tornò al silenzio, dal diradare di una modesta collina sopraggiunse il treno. era un merci: lunghissimo, possente, nero. chissà da quale regione arrivava. chissà da quale vita, chissà da quali segreti orrori. mi piacque immaginare la siberia. e di quella immaginai i lupi e la neve.

dal passaggio del merci, solo pochi istanti. un soffio ferroso, meno di un attimo. la sbarra mi "concesse" la strada. il treno, al suo passaggio, e mi piacque pensarlo, raccolse da terra, tra l'adesso e l'ormai, il mio passato. lo guardai fino a quando fu vento nel vento, un punto tra ormai recisi confini.  montai su jessie, spinsi su on e presi la strada ... verso la grande promessa.

il posto era quello. il tempo pure ... e la casa ... era identica a quella della foto ... i miei vecchi avevano ragione e il destino, torto.

"lo deportarono in russia ... nella sua ultima lettera, una foto con su scritte due incomprensibili parole: jurmala-vorkuta ...da quella volta, dal 1944, del mio pietro, più nulla."

"ancorata" jessie e scaricati i bagagli, solcai la soglia di quel lontano ricordo. dalla fine di quel viaggio ne cominciava un altro. aprii lentamente la porta, che scivolò sui vecchi cardini. il soffitto a volta era attraversato da dodici nervature di pietra che proiettavano pesanti ombre lungo il profilo della sala. al centro vi era una tavola circolare di pietra nera di circa due metri di diametro, e al centro della tavola, posta in una leggera infossatura, una lastra bianca di granito. davanti alla tavola c’era un imponente sedia, con uno schienale alto ed ampio e braccioli intagliati. l’unica luce qui dentro proveniva da una discreta apertura, che riquadrava la scarna parete di fondo. la lastra di granito misurava circa trenta centimetri di diametro e sulla sua superficie, incisa con una pugnalata di lama, le strane parole della foto: vorkuta breeze, '44 ... p.l.p..

fu un brivido e la mia anima a quel freddo fu sposa. quei segni indicavano la rotta. la mia ricompensa, giaceva lì ... davanti i miei occhi. richiusi la porta alle mie spalle e con quel carico di visioni scelsi un piccolo quadrato di spighe di fianco gli scarichi di jessie e a due passi dell'ultima dimora del caporal pietro la porta.

vinto dalla stanchezza, mi lasciai andare alle cure di quel raro "soleluna" russo, che lì, sanguinante rubiniccio, dilagando da quell'impareggiabile verticale, dalla linea ferrata ai diamanti del baltico, faceva grande il mondo.

il viaggio, era appena iniziato.

vorkuta, la mia promessa.

Photo, Train "clicks" trough time!, by S.M.art.

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