26 settembre, 2014

Dove accadono gli uomini, di vitobenicio zingales

"Dove accadono gli uomini"

Era che assaggiava la vita, tentandone, poco alla volta, un godimento veloce, quel diligente attribuirsi. Riconosceva a tutti i suoi tentativi, quel plauso che si deve perfino ai teatranti poco accorti o ai funamboli, dopo la virata e l'inaccettabile urto. Viveva dove accadono le cose. Sul prepuzio di un clamore, sull'esaurirsi della foce che l'acqua deve per inevitabile ammissione. Aveva trovato il suo posto in un angolo di vicenda dove le conseguenze, pure esacerbate, non sono opportunità. Era che restava dove l'effetto agisce nutrimenti solo per necessaria avversione, come quando è la grandine che improvvisa la vita, ma per mistificarne gli obblighi del passaggio. Godeva di un solo privilegio o meglio, di un'arte disimparata: viveva dove accadono gli uomini.

E semmai vi chiedeste da dove, trovereste scomoda la risposta, perché è indubbio che la carne arrivi da un qualsiasi luogo, ma della coscienza, talvolta, l'anagrafe e' incerta ... e la sua, di coscienza,  almeno in apparenza, procedeva al mondo senza un grammo di pelle. 

Abitava uno di quei posti ... uno di quelli che sono distanti. Lontani e basta. Uno di quelli dove nulla e' frequente e che giace, per anonima, ma potente intenzione, allegato a tiepidi pretesti e a perenni, quanto mai inconcludenti esordi. Lo abitava tutti i giorni, indifferentemente, dal primo all'ultimo, compreso il succedersi delle più improbabili scuse. Ma solo, di sbieco, defilato, alla finestra. Era il suo posto. Il suo matrimonio, perfetto e consolabile. L'entroterra di una terra e di un patto nascosti. Suggeriva una di quelle diagnosi che emergono dagli zigomi degli ufficiali giudiziari prima di eseguire le capacità del potere. Non era sciatto. Neppure sudicio. Ma esercitava malessere. Girava come in cerchio, perdendosi nel suo medesimo accenno al riparo: andito, corridoio, soggiorno e camera da letto. A ricavo, in subordine agli accessi, un enorme salone. Due piccole finestre permettevano la luce, ma restavano ferme ... incapaci di urlare. Nessun altro dettaglio, al di là che fosse o meno una casa, dichiarava cristiane e indulgenti cerimonie focolari. Era un posto, semplicemente il suo. Lo trovava adatto al suo immeritato consenso, in obbligo a validare la propria arte domestica; soprattutto lo riteneva sufficientemente addestrato a prevenire quella carie di desideri che talvolta, con il medesimo predatorio accanimento, guastava cibo e chiesastiche consuetudini. Era la sua condizione inessenziale e ideale. Lo spasmo giocato alla solitudine ... quel coito immateriale avvenuto al futuro. Col tempo, riuscì a garantirgli più di una certezza, malgrado la sua inadeguata conformità' alla vita. La convinzione di riuscirsi capace, ad esempio. Eseguiva, ormai, gesti oltremodo complessi e questo lo abilitava a considerarsi simile, più che succedaneo. Possedeva il "segreto" e pur tuttavia ne teneva a distanza le più che proverbiali e ghiotte alchimie: le serie temporali in TV, tra le più seducenti, ne correggevano l'inerzia, ma non ne influenzavano il tumulto all'isolamento. E quando riteneva più che sovrabbondante quel dispotico lusso, lo scalzava dalle gerarchie al possibile. Lui presiedeva il governo dell'arte e in fondo, del posto, era l'acuto pontefice,  l'artefice della creazione. Null'altro di così potentemente relativo: lui era dio.

Tutto appariva intatto. In ordine, debitamente catalogato. Nessun oggetto, disposto alle necessita', dispiaceva alcuna intesa. Perfino le pareti, sostenute da un cenno di boria, chiarivano logica ed estetica, evitando dissonanti grammatiche tra le parti. Galleggiato su per un pelo di bianco: quasi un incorniciato al silenzio. Poi, erano gli armadi. Tutti bruni, di ciliegio. A tre ante, alti, massicci. Due per ogni spazio consentito. Eccetto per i quattro in salone. Sulle ante di centro, alcune etichette adesive. Forse una classifica archivistica o una sorta di cronologico succedere. Erano la sua prospettiva, la cassaforte del tempo. E delle cose che accadono. Non richiedeva quel notevole, evangelico sforzo, ma dedizione e misurato allarme. Risultava sufficiente sporgersi, lasciare che l'ombra cadesse tre passi indietro e farsi pazienza. Risultava indispensabile non farsi desiderio.

Non lontano, classificati da un urlo bianco, accadevano le formule e i luoghi. Il fuoco, quel moto fiocinato al ricordo, ne commemorava gli smarrimenti  e le pretese. Dal posto, lasciata l'ombra, "tutto", invece, si faceva estraneo, perfino a quegli alberi stranieri ...

"Oggi "uomo con cane" passato in ritardo. Cosparso da soliti colori. Fatto pace con moglie."
"L'avvocato, in grigio. Impeccabile. Udienza. Sorridente: vince."
"Ettore aperto in ritardo. Ancora discussioni. Sua figlia ..."
"A pranzo, donna alla moda sola al tavolo. Conti in rosso."
"Ragazzo in bici, al solito orario. Folle corsa. Ancora innamorato?"
"Poliziotto sempre al cell., camicia d'ordinanza gualcita. Solite giostre notturne Facebook."
"Donna carina impiegata e capo brizzolato, usciti mezz'ora dopo tutti. Continua la cosa in ufficio."
"Donna con tacchi, in lungo stasera. Taxi. Finalmente, dopo divorzio."
"Vecchina, supermercato. Due buste. Cena con figli."

Nel grembo delle cose si concimava l'ennesima gestazione e oltre quel taglio di luce, privo di sorte, accadevano gli uomini. 

Il posto rifletteva soltanto una conseguenza ... incapace di dare vita a dio.

Vbz

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