Innanzi a questa lettera è l'autunno che prepara il proprio godersi, col rigore di un evidenza e le ragioni di un pretesto. I vetri dicono sempre l'inutile estetica dei platani, con quel dibattito senza ali che dal primo al terzo piano sfiora le colpe di una prospettiva mai slanciata: esaltano a dio, ma drenano oboli senza volto. Ti scrivo l'estate che ha fallito e l'ostinata prudenza con cui si è misurato ogni impegno, anche lieve, al delitto. Tutto il resto, tra indecenze laminate e bruniti amanti, lo troverai imbrogliato alle fotografie del tuo sbranarti a ruggine e di fianco il robusto rovere delle apparenze. Dove erano le nostre abitudini, che risolvevano promesse all'infanzia, le ore, adesso, tirano a sorte ogni sciatta intenzione, regolando alla noia e al livore la parte peggiore del palato.
L'inizio, soprattutto. Eri la fortuna, il bivio che passa da ogni strada ferma al palo. L'insistenza al tempo che distrae l'urto dalle rapine del tentare. La finestra del mio "finalmente". C'era quel godere adolescente che diceva di promesse albine, quasi un adescarsi al furore. Tutto, in mezzo, erano chiese crollate e templi che sventravano la tua fede e il mio danno. Eri il cliente al caos. La colpa che si oltraggia. Eri io.
E non viveva d'altro il giorno conseguente, stracciato, di ora in ora, dai fogli delle necessità e ripiegato, alla sera, ai calzini del farsi intreccio. Eri l'autobiografia della gioia, quel poco che basta a farsi appuntamento. Ti affacciavi al mosto della vita, risolvendo il frastuono dell'edera con due soldi di divano e una lampada di promesse: il nostro altrove era l'ovunque si vivesse insieme. Bastavi al mio nome, passeggiando le mie incertezze con un lieve calcolo di fragranze e una stoffa di aritmetiche a quadri. Era sempre estate da qualche parte e, malgrado dicembre, per te, illuminava tutto sul lago. Bastavano due autobus e una vaschetta ripiena di attese unte olio e sale per salire mezzanotte addormentati alle pareti in ritardo con l'affitto, ma in accordo alle rivoluzioni del risveglio. Parlavi parole che galleggiavano stupore e in quel getto di prua diluiva la modestia dei nostri olocausti. Eravamo ciurma e capitano e di quel fascio a faro, ogni pedalata, alla sera, meravigliava vicoli di vetrine e semafori in controsenso. I miei aeroporti all'alba, poi, illudevano le distanze sul taccuino degli adii e non c'era festa che somigliasse ai regni del ritorno. "Ti lascio il sangue", mi dicevi e riempivi il buio con quelle piccole pattuglie di gesti al seno ... partivo e ritornavo. Morivo e, nel palmo di una parola, io rinascevo. Levavamo ai giorni le spunte del futuro, dichiarando orrore alle decorazioni dell'ipocrisia: l'oltremodo di quell'ultima Milano. Ricordi? Eravamo assenze, frantumi d'eterno spezzati al possibile, macchie di citofoni pronte ad affermare grotte di segreti passaggi e se ci avanzava un resto di inconsapevole ardore aprivamo varchi di ricordi ai muri dell'insolenza ... Odoravamo d'amanti e il tempo, millantando un credito di debolezza e una correa intenzione, ritardava alla nostra pelle le conseguenze dei tribunali. Ti allacciavi alla mia acqua con la sete che allatta il mondo, indovinando, nel cemento dei miei incubi, ogni semina di tristezza. Faceva piano casa, tra adesioni di ringhiera e cucina a vista, ma per benedire vendemmie di speranza e tentarti ancora madre. Non possedevamo altro che le nostre passeggiate, dall'idroscalo al duomo, ma testimoniavamo le semplici liturgie di un volo. Eri salgemma e neve. L'anagramma dello svincolo. Il mio mattino puntuale, "I love you". La coscienza del dove. Quell'universo a chiave e al sicuro. Eri il posto, non la via. L'abbandono spettinato alle conseguenze del crimine più mirabile. Il custodirsi. L'emergere del ripetersi. La redenzione e il pegno. Eri il sottrarre cose in fondo al muoversi delle cose. La cura. Il malanno incompiuto. Eri la giacenza meravigliata. Eri io.
Eravamo tutto questo e le ragioni di una magnifica incoerenza.
Innanzi a questa lettera il tumulto del primo addio. Il nulla. Io ti scrivo la rinuncia, l'indifferenza arida di quel "piuttosto vivo". Le poche ore che restano, marginando vuoti, preludono ai solai di un debito ritardato: siamo calcoli al netto di un insolito prestigio: l'attitudine al rilancio del pretesto più meschino. Abbiamo scavato paralleli di trincee per concederci il valore al disprezzo. Siamo il tempo perso, l'occasione che ha svoltato gli occhi, il mestiere del retribuirsi la maggiore delusione in campo. Ripristiniamo, giorno dopo giorno, il danno, ma incattivito, e non dal tempo, ma dal consumo che piace agli altri. Quel che sembra camminarci accanto e' la parsimonia del rancore: i vicini di casa che controllano il nostro orologio al crollo. La schiena di un artiglio adatta al prestito più miserabile: pronti a farci uso e subito per un'omelia di interpretata gentilezza. Col tempo, ti scrivevo, finiamo tutti col diventare amanti ... presto o tardi si diventa pari al peso di una busta paga e non c'e' saldo che contenga i tentativi in bianco e nero di una rapida farfalla. Siamo ciò che spiano gli altri, la frustrante alchimia del facile ripiego: l'altrettale al ripiano basso dei commerci suggeriti. La sfortuna di un deposito con merci "impertinenti" allo scambio.
Siamo gli altri: più che adatti al fromboliere della porta accanto.
Vbz
...fino a dove è inutile capire...
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