07 febbraio, 2015

Trilogia della steppa. Taiga. Vitobenicio Zingales

Trilogia della steppa

Taiga

(e di quel morire piano alla Domenica)

Amica mia adorata,

come sai, ho risolto l'ennesimo trasloco, imballando antiche congetture e nastrando apparenze d'incarto. Ho lasciato che il viaggio doppiasse la ferrovia del risalire, vincolando il rimpianto alla sala d'attesa e il rimorso alla "oggetti smarriti". I sintomi delle soste, però,  hanno procurato gli allarmi degli inverni illustrati anzitempo e ben oltre il succedersi dei dubbi che il viandante sa tenere a ricavo. 

Da giorni, finito il viaggio, e compensata la catastrofe della meta, assolvo alle mie esangui cerimonie domestiche, diluendo solitudine e claustrofobica gioia alle semine ripetute di ciò che è stato.

Ho trovato dimora e tempio, vicino il pube caotico della città.

Il fitto è buono e non pesa sulla incorruttibile classifica dei debiti. L'orrido del ricominciare, combinato alle equazioni della consapevolezza, destreggia il conflitto, ma non avvilisce, di certo, gli eccessi della memoria. D'altronde possiedo ancora i profitti di quel "dissapore etico" e la morte sentimentale che appresso mi è giunta eroga un titolo di viaggio, a ristoro del danno, del tutto accomandante. L'impegno assunto, comporta si un aggravio di tempo, ma depone a vantaggio di un superbo distacco: l'iconoclastica dell'inferno felice, così mi piace tradurlo. Il frasiccio del mondo, là fuori, torna attutito ai frangenti tufigni del palazzo e da lì colgo solo quella debole eco che, deplorevole, lavora di punzecchio, ma non di lama. Come gentaglia: il sottosuolo dell'insolenza. Quando, per la sferza dei più pruriginosi, lo sbarramento cede la trincea, non mi resta che risalire Vivaldi ... e mi impedisco di mescolare quel "sovrabbondante pressapoco" con questa mistica del necessario. Alla fine, i privilegi della solità, respingendo tentativi e affondi più che maldestri , pare illuminino sulla morale dello spazio e con quel taglio così profondo da rendere ingovernabile l'emorragia accaduta agli scaltri e agli imbecilli. È poco, ma basta. Risulta da una forzatura, ma la "spietatezza del conforto" è pari alle oscenità dell'oltraggio. L'invidia, su tutto. La meschinità e l'ipocrisia, poi. Da navata a transetto, in quella chiesa culturale, tra sacerdoti e osservanti, l'aratro della sottigliezza muove solo per l'orlo delle sottane e per rinforzare al tessuto della colpa la coccarda dell'accidia. Amica mia: un giubileo di schiene ... un torpore di avanguardie approssimate, quasi un capraio ruminante lessici di penitenze. Il potere e la gloria, in un sorso di tastiera! Talvolta cedo agli sforzi della rabbia, ma per delegittimare il mio "di dentro" contumace: appena il tempo di un rigurgito e torno al perimetro della mia prigione morale, ai solstizi della differenza. Da qui, dove abbonda la mia ritrovata stirpe, coagulo la fede della perdita con la cicatrice lunga dei ricordi, appressando le novità di una prostituta col delitto antico della "fame". Ma sono aritmetiche deducibili, oltremodo umane e tipicamente soggiogate alla sopravvivenza di una specie. Le preferisco all'orgasmo infantile del promettere dio e al salasso criminale dell'illudersi provveduti.  Così elevo un osanna, o una prece, alla genealogia del frattempo, liquidando il timore di esistere una vita insignificante, più che ferinamente solitaria, con una bordata di sesso per un ninfomanico avviluppo di gioia prezzolata. In fondo è la mia messa santa e ne governo l'accesso all'ostensorio secondo le candidature che nani e dei contabilizzano ai miei interessi. Sorvolo sull'encomio del sottrarre, ma sottolineo le pertinenze dell'evocare: mi supera la malinconia e più di quell'enfisema estetico appiccicato ai polmoni di questa città irrimediabile. Dubito che possa rendersi palese una legittima forza ordinatrice, talmente sono forti i convincimenti dei più all'ingrasso, ma a questi orpelli anarchici si fa l'abitudine, testimoniando i carteggi di un'invisibile disprezzo. Lo riterrai sconnesso, al limite della superbia, quasi ... ma al godibile disimpegno morale, preferisco la morte sociale dello spirito. La scena, e lo sai fin troppo bene, è per quel genere d'azzardo che impegna élite di creme e muscoli d'assalto e tanto da accreditare la meno partecipata umanità al tripudio del dio più carnivoro. I passaporti per il paradiso possiedono, lì, validità eterne e, al pedaggio, frontiere corrotte e "circoli emancipati" richiedono oboli da bestemmiare alla sbarra del simpatico commercio: poetastri, autoscattisti, politicomani, eroschattisti, dioamatori, sermonisti ... una prolissi circense equipaggiata all'urto dell'indecenza e tutta tesa agli obblighi dello scandalo, un tenersi posticci per le platee paganti  ...  l'oncologia del miracolo, così mi piace tenerlo al tatto sfigurato degli occhi.

Amica mia, questa bruttezza corporativa che espande figli destri al delitto estetico ... questa afa di chiacchiera democratica che elargisce sciatterie di intenzioni e ludibrii di orifizi, questa mediocrità cortigliara che paroliccia prostituta le passeggiate di una città irreversibile ... Preferisco tenermi il mio immorale e dispotico dissenso, slanciando la tragedia della libertà oltre il pilastro delle più fortunate garanzie. Preferisco rendere il malloppo umano alle beatitudini evangeliche, là, sul sabbioso guadagno d'ogni torre familiare, chirurgicamente ricamate a risplendere stoffe di frammenti ... 

Vivo da appartato la genesi del nodo, quel dolore perfetto che, eguagliando ai germogli del fallire i semi del confermarsi vani e tentativi, provvede ogni giorno a legare ossi e vetri alla carne di ogni stipite battuto al buio. Io racconto la peste del rifacimento buono, la tragedia del supplicare vita dagli oscuri sotterranei dell'assenza. Io incarno la pessima abitudine, la molestia insonne, la cattiva intenzione, la deprecabile rinunzia ...

Io amo i lupi.

No, amica mia ... il viaggio non è stanco, ma pone allo stremo del senso. Mi assento dal pronostico generale, perché sapere, come l'amare, è tormento. La ferrovia segna lontana e le mie tracce rassegnano una circostanza perdibile, ma ormai indifferibile alle rotte del tenermi lontano. 

E se questo è lo scotto, il ragionevole daziario per assumersi al credito della consuetudine, io scelgo la Taiga della mia miserevole scelleratezza, quell'edificio smesso che abita l'oscura meraviglia del confine irreparabile: l'ultima falange imprecante la banchisa miliare.

Ma è luna, adesso. Possiedo un obbligo e ogni giorno, al farsi sera, con una gioia violenta, mi comincia la vita.

VHS




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