31 luglio, 2010

codice narcron, di vitobenicio zingales

Prologo minore



Vi sono uomini che domandano di possedere il mondo. Un uomo nella sua veste di adoratore impetrante la terra si rivela tale solo quando rinuncia al senso del proprio evento.

E’ vero che alcune anime non hanno bisogno del tocco della mia mano per esprimersi. In una forma essenziale queste non invogliano all’uso per non sciuparne la già accuratissima Egoità. Questo non toglie che restino anime perfettamente adatte all’uso sul campo se soltanto io volessi farlo.

Che la predazione d’anime preveda in qualche misura lo scambio con altri inferiori predatori e richieda un “oggetto intonso”, è forse un peccato. Ne è disturbato il piacere del possesso con l’anima predata, quel possesso che si ha solo con l’arte dell’usarlo.

Quello che gli conferirà col tempo un’esclusiva terrena individualità e che è quasi preteso dalle anime di questa umanità.

Ogni anno parto da una circostanza fortuita, da un disegno sommamente evoluto, ai quali aggiungo un’infiorescente serie di pretesti che generano fra le molteplicità umane un’anima nuova, immediatamente predabile e ragionevolmente utilizzabile.

Io lo faccio da millenni. La grande varietà delle brame avidamente inseguite dagli uomini ha fortemente influenzato il mondo della produzione umana.

Le nuove forme umane non sono solo accattivanti, ma rispondono a precisi criteri di utilità, che io riscontro in ogni minuscolo dettaglio e che non inficiano mai l’estetica… e il mio più che apprezzabile buon gusto.

Come del resto si addice ad un buon prodotto che rappresenta la sintesi di molti millenni d’evoluzione. Il più antico utensile da me usato sta giungendo a perfezione. Ecco, io me ne compiaccio. Ecco, io avrò il mondo.

La merce che offro al mio esclusivo cliente, che pure paga un prezzo generoso, ha la possibilità d’essere regolata. La regolazione la fanno loro, che hanno bramato quella e non quell’altra vita in particolare e sanno che cosa avevano in mente all’atto della realizzazione. Essi sono liberi… di pensarlo, di sentirlo e di volerlo.

Un’anima non perfettamente regolabile, incidentalmente, non è affatto una semplificazione rispetto ad una coscienza che si possa svuotare o annientare a piacimento: io ho tempo.

Richiede somma avidità, orgoglio smisurato, cieca ira, egoismo sfrenato e sublime invidia e sempre uguali ed in particolar modo esige una ribattitura dell’anima eseguita con la medesima pressione su tutti i dettagli dell’umano prodotto.

Questo consente d’avere una distribuzione equa degli eventi con cui la coscienza regolata diventa un’estensione dell’io tentato naturale come l’anima posseduta.

Materialismo, sapere scientifico, pensiero immanente ed edonismo intellettuale sono materie di mia assoluta pertinenza. Aldilà di queste, talune inferenze mi risultano grevi e alquanto irrilevanti. Qualcheduna divinità provoca solo perdita di tempo.

L’evoluzione, rispetto ai due secoli passati, è immediatamente percepibile.

Sono fiero di me stesso. Sono orgoglioso del mondo ché del mio principio ne ha recuperato e sublimato il senso.

L’uomo era un oggetto nel cui disegno originario non c’era nulla di banale o scontato, buon esempio di come l’evoluzione della specie abbia portato a risultati impensabili e senza precedenti.

Visto dalla mia particolare ed eterna prospettiva oggi l’uomo sembrerebbe perfetto.





20 giugno 2011, Waiblingen



Il corpo penzolava dal cielo d’ardesia della cella numero sette.

Annibale Tristani, livido, appeso per il collo all’anello della catena, oscillava da una parte all’altra di un’invisibile verticale, come se un soffio ne sospingesse i ricordi, ma anche, e più decisamente, i pensieri più segreti. Completamente nudo, legata con un giro di corda al petto una copia della Bibbia spalancava sul Prologo di Giovanni.

Sul dorso della mano sinistra un numero a tre cifre, tracciato con un pennarello rosso, solcava la pelle: “357”; sul dorso sinistro il segno “per” e il numero “due” a fianco, marcati col medesimo inchiostro, ma con più evidente forza, sospendevano al disopra delle forti nocche. Per tutta la lunghezza del piatto ventre, il sangue coagulato per alcune ferite probabilmente autoinferte, riproduceva una frase apparentemente priva di senso: amor latrona in nomine Christi.

357 x 2 amor latrona in nomine Christi.

Negli occhi sbarrati rifletteva il senso della vergogna che propagandosi fra i confini della cella culminava addosso il ticchettio dell’orologio a parete. Aldilà di quelle visibili superfici sospendevano “però” perennità intangibili neppure lontanamente contaminate dai vincoli e dai criteri dell’esperienza. Nella stanza era la morte. Il suo letifero odore rimbombava da quel vetro di “occhi” lasciando all’ombra soltanto impotenti e fragili spazi. Il tempo là mieteva indeclinabili distanze perché potesse frammentarsi all’infinito anche il più vivido dei ricordi. Soltanto da quella frase, là appesa alla freddezza della carne, inutile e silente, generava una potente eco. Poi dilagava il silenzio… vibrante come i riflessi sgorganti dal Prologo dell’Uomo. Tutto ciò era visibile nell’aria fra le vite abitate da quell’umanità penzolante e gli orizzonti prossimi. In quel pulsare di smarrite scie era il riprodursi degli effetti che per la storia di quell’anima elevarono al pensare dell’universo tanti nodi quante furono le colpe dell’eludere.

Era l’odore della morte… che dal silenzio di quel corpo, a prima vista svuotato da ogni segno vitale, cercava l’ennesima via per gemmare un’ulteriore ordito. Le “sue vite” erano nell’aria sebbene invisibili agli occhi dell’esperienza.

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