trentuno maggio 1998.
solo all’ultimo si accorse del sangue. abbondava forte. rosso, come la memoria, sul nero. a getti. e pompando a schizzi, come la speranza. cercò con ogni modo di spiegare alla vita le sue ultime ragioni. quelle più intime. che ti scappano, se non sei bravo, ad afferrarne pretesti e convinzioni. ma dal foro d’uscita era anche quel cazzo d’anima e a questa parve mancare l’udito. crepava. non faceva male. sentiva solo l’”umido” e il “denso” del sangue, in bocca e giù, giù per le mutande. avrebbe voluto più tempo e cercare, tra quei maledetti istanti, la via più breve per fottersi all’inferno. ma il buco in pancia era uno di quelli che non ammetteva ricatti. o squallidi albi.
svoltava l’angolo e di là non c’erano santi. neppure una di quelle stronze scappatoie che in città salvano reputazione e palle. si levava dai coglioni senza tornare un dollaro di resto.
pulito, conciso e fottuto ... quello era il buco di un signor calibro “12” e per com’era fatto, fotteva la vita senza rimpianti, con garbo e mestiere.
ai bordi della strada, a quell’ora, non erano ricordi, ma uno schianto di cielo e sabbia … sabbia che palpita a sabbia. riuscì ad imbucare la camaro dentro al culo di una di quelle mille piazzole.. sabbia e pali. uno dietro l’altro, con i fili tesi ad inseguire inutili, stronzi miraggi. era giallo. torbido. e arancio, a tratti. ai lati, di fianco e dietro erano solo vento e una schifa merda di cespugli. col cielo rimbalzante, tra cose che sanno di rimorso e d’incalcolabile. il buco era più che uno squarcio, un fosso spalancato, uno di quelli che, se crepi, per il dolore rimetti tutti i peccati. crepava. nel suo piscio. su per quel filo d’asfalto, direzione steigarte.
al km uno nove zero sei.
cristobàl, in quella cazzo di borsa, aveva tanti di quei soldi, ma così tanti da sognarci uno di quei mondi perfetti. il lavoro fruttò bene. quasi un milione tondo, un milione di dollari americani ... e un buco fra gli occhi del compare portoricano. ecchecazzo avrebbe potuto godersi tutto quel cristo di ben di dio col culo ben piantato tra i caleijdon all’havana … e invece stava lì, a fottersi con l’indice e il medio, infilati per metà, dentro al più sconveniente cazzo di un buco dannato. avrebbe voluto vendere cara la pelle e metterli tutti in riga, ma per quei cento gringos schifosi, il piombo del suo spas, quel giorno, non riuscì a dirla tutta. fino a prova contraria quel buco indicava che il suo fucile a pompa il mestiere lo fece, e si, girò proprio alla grande, ma per fottere solo due sbirri e un maledetto ruffiano ef b i. il compare crepò all’istante. il piombo dolce di una beretta lunga gli sturò dio dalla fronte. un buco, una mano, servito: dritto, proprio in mezzo agli occhi. one shoot one kill. secco. e quel cristo di un dio lo lasciò in terra, nel mezzo dello spiazzo della mexico national bank, come una di quelle macchie, buone sole per l’infamia delle mosche più avide.
era caldo. che non c’erano santi. e crepava. e a godersela erano i corvi, su per i fili, un palo dietro l’altro.
avrebbe voluto più tempo. crepava, cercando quel plausibile motivo per fottere la morte in punto di morte. e a quella, se l’avesse beccata, non le avrebbe usato alcuna cortesia e in culo al mondo, all’inferno … si, ci sarebbe andato, ma con quel solito sorriso stronzo che, escludendo quella santa donna di sua madre, nessuno, in fondo, riuscì mai a capire. avrebbe voluto più tempo, ma il suo tempo finiva là, dove la morte esattamente colse impreparato il suo culo.
“ma cazzo … sono cristobàl soto gonzales!”
chissà perché, ma se volessimo spiegare la cosa è certo che subito dopo affogheremmo nelle nostre stesse parole.
era quel caldo. quello che ti sfonda l’anima a partire dalle sue cartilagini. dappertutto era niente. a cento miglia da steigarte e a meno di settanta dai fucili calibro “12” degli americani.
si alzò da terra. il dolore quasi lo svenne. il sangue pompò uno di quegli schizzi che ci riempi un paio di boccali da 66. tenne duro. avrebbe voluto urlare, ma il suo dio non avrebbe gradito. in fondo era un buco, nient’altro che questo, un solo, semplice cazzo di un buco. con la destra cercò di tamponare la ferita e con la sinistra impugnò il suo”spas”. un passo e fu dentro alla sua camaro. respirò sangue. lo buttò dentro. respirò il freddo della morte e lo sputò fuori dal vetro. prese la tascabile e ne foderò con uno straccio la punta. respirò. buttò dentro e sputò fuori.
ci sono certi uomini che solo il mondo li sa.
allargò il buco con la sinistra e con la destra gli ficcò dentro la tascabile, “cazzo!”. sorrise. si, il bastardo sorrise. “cazzo!”, lo urlò d’un fiato, poi niente. solo silenzio e l’otto cilindri già innescato.
100 miglia a steigarte e a non più di 70 gli stronzi federali.
“se devo crepare … voglio il mare … si cazzo, il mare … dentro al culo dei miei occhi …”
girò la camaro dall’altra parte della strada. a settanta miglia era l’atlantico. e quel mondo perfetto che la sua vecchia fin da piccolo gli andava dicendo.
cristobàl soto gonzales aveva un buco in pancia, un milione tondo di dollari americani e un’altra storia da dover vendere ai corvi del new mexico chronicle today.
per buona parte del “viaggio” la camaro filò liscia. a centotrenta miglia all’ora, tra cactus saguari e coyotes neri. al meticcio di saxantla il sangue scorreva lento. la tascabile gli impedì di schiattare su quel primo pezzo di strada. era caldo, fuori. nella sua carne era invece quel “freddo”. ma finocchio di un cane bastardo, ne era convinto: pretendeva il mare … e lo voleva tutto dentro ai suoi occhi.
bam, bam, bam.
i primi colpi giunsero da dietro. secchi. potenti. sfondarono il lunotto e conficcarono la tappezzeria. imbracciò il suo spas e lo puntò fuori dal vetro. sparò un primo colpo. solo per fare intendere che il suo culo valeva quel giro. altri colpi, sempre da dietro. gli sbirri vedevano la mano e, a quanto pare, stavano al gioco. davanti era la strada. al km uno nove due sei il deserto cominciò a farsi meno improbabile. nello specchietto riuscì a contare almeno otto chevy. gli davano la caccia. per creparlo. non per altro. solo per spingergliela in quel posto. cominciò a tirare la camaro al limite e le chevy, dietro, sparirono tra rettifili e un paio di interminabili dossi.
bam, bam, bam.
questa volta giunsero dal cielo. due,tre, quattro raffiche. al km uno nove tre uno la sagoma di un elicottero disegnò sull’asfalto bollente una di quelle ombre che non promettono affatto bene. cristobàl, imbracciando lo spas con la destra, puntò in alto e tirò un colpo. l’eco si perse nell’aria. un’altra raffica. questa volta gli shepard colsero nel centro. forarono il tetto e un paio di minuscole schegge gli si schiantarono tra schiena e collo. per trenta miglia solo asfalto e raffiche. schegge e sangue.
al km uno nove cinque sette l’inaspettato. il mezzosangue inchiodò duro e tanto da bruciare i due e sessantacinque posteriori. l’elicottero superò la camaro. cristobal scese dalla macchina. e poi furono solo istanti. il pilota impennò bruscamente e poi virò. lentamente, scendendo di quota e puntando radente, l’augusta si diresse verso la camaro. istanti. quando gli stronzi furono a meno di cinquanta metri dalla sua visuale, e a venti da terra, cristobàl inspirò, imbracciò lo spas, prese la mira e tirò tra i vetri della cabina. one shoot one kill. in mezzo agli occhi. il pilota crepò all’istante. l’elicottero esplose tra le dune, a un centinaio di metri dalla camaro. lo sforzo fu terribile. cadde in ginocchio. forse era tempo. la morte richiedeva quel cazzo di un conto.
la sentì solo per un attimo. era la brezza del mare. la vita lo disse ai denti e cristobàl riaprì gli occhi.
risalì sulla camaro. quel freddo divenne ghiaccio. riprese la corsa.
130 miglia all’ora e la brezza del mare nel cuore. negli occhi era la nebbia, ma anche le parole della vecchia:
“se devi morire, fallo una sola volta, ma fallo bene”.
al km uno nove sei zero uno di quei posti di blocchi che, al solo immaginarlo, ti viene il panico. alle spalle di quel micidiale esercito di sbirri americani, più di un’illusione: forse l’azzurro più bello del mondo … il mare.
nel suo spas le ultime due cartucce. la tascabile andata. il sangue sputava a schizzi. e quel cazzo di un freddo veniva fuori e tornava dentro. freddo: alle gambe, tra i ricordi, al petto, per la voglia di vivere. fermò la camaro. a cinquecento metri dal muso della ford, cento fauci spalancate. luccicanti, affamati “12” letali.
a meno di tre miglia le parole di sua madre.
era pronto.
legò con una pezza la mano destra al volante. imbracciò lo spas con la sinistra e lo vibrò fuori dal vetro. allacciò la cintura di sicurezza. e respirò. due colpi vigorosi sul pedale. uno di quei rombi potenti. che è il cielo quando non ci credi e s’incazza.
meno di dieci secondi. brucianti. come quel caldo. di più, come quello che non risulta igienico neppure immaginare.
alla fine l’inferno.
i colpi giunsero da ogni parte. micidiali. penetranti. cattivi. filanti. precisi. al braccio destro. al collo. al petto. alla guancia. alla mano sinistra. ne raccolse almeno quindici. nessuno mortale, ma tutti in sagoma. sparò un solo colpo. a vuoto. tenne la camaro dritta. sulla mezzeria. a centoventi miglia all’ora, l’impatto ...
con quel poco di forze rimaste riuscì a buttare le pupille nello specchietto. mandò in pezzi solo quattro chevy, ma il terrore innescato dall’impatto riuscì a congelare le palle a tutti quegli stronzi di sbirri famelici. la camaro era una groviera. un good year anteriore scoppiato. i semiassi fottuti. le portiere abbattute. i paraurti striscianti. il tetto andato.
ma la stronza non lo mollò. rosina, questo il nome della camaro, riuscì a far scorrere sotto al suo culo ancora un paio di miglia di caldo bitume. a cinquanta miglia all’ora. doveva far presto. gli sbirri, ficcate le palle nel loro inutile, solito posto, andavano riemergendo da quell’inferno.
al km uno nove sei tre, a cento metri dal bordo della strada … il mare.
discese dalla camaro. nei suoi occhi le prime onde. l’atlantico. sua madre. sua figlia. le sue donne. i suoi sbagli. le prime banche.
sorrise.
il sangue pompava nero dalla pancia. forse erano le ultime gocce. era nebbia. in fondo agli occhi e in fondo al culo dell’anima. e lentamente cominciò a correre. metro dopo metro. un passo dietro l’altro. contò solo due pali. e su per i fili non erano corvi, ma poche macchie di cielo aggrappate. inciampò, una volta. due volte. si rialzò … e la sfiorò … la sabbia era così sottile e bianca. tutto era perfetto. anche per imparare un ultimo ricordo.
“fallo solo una volta, ma fallo bene.”
alle sue spalle sentì le chevy degli sbirri. l’atlantico era nei suoi occhi. e il futuro, un pelo sopra il ripetersi di quell’azzurro all’infinito.
ebbe il tempo di levare gli stivali. di sorridere ancora. e di raccontare l’ultima al suo di un dio.
quando il colpo partì la sua vita fu tra le braccia di quelle parole: “fallo solo una volta, ma fallo bene.”
nei suoi occhi e fra i capelli … il mare.
sorrise.
il mare.
l’onda era gelida, ma non più di quel freddo dannato.
dopo anni, una di quelle solite leggende che il solo crederlo, chissà perché, fa bene alla vita. una cartuccia di uno spas, il trentuno maggio del 2005, fu ritrovata da un pescatore tra le alghe che battono la costa vicino i bordi della strada al km uno nove sette zero, tra la piazzola 410 e il palo numero 2.410. niente di speciale se non fosse stato per alcune parole incise intorno al numero del calibro di quella fottuta pallottola.
if you must die, do it once, but you do it well.
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