slowly, for your eyes.
talvolta rimediava pure un sorriso. uno di quelli che magari non c’hanno la vita dentro, ma sanno la vita a cominciare dalla più intima tra le carie. non è che fosse raro, ma quando capitava era al venerdì, sul treno. di ritorno, verso casa. e da quel sorriso era la memoria, la sola a cui concedeva uno slancio ed un riparo. trovava che l’elemento essenziale per vivere al meglio la vita fosse il controllo del ricordo e la capacità di gestirne il dramma. ne era convinto. questa inconsueta capacità l’andò addestrando e affinando come si fa con le cose elementari della vita. oggi, dopo anni di duro lavoro - e lui era un meticoloso “vecchio stampo”-, poteva ritenersi più che soddisfatto. viveva nel presente e nella sua anima riflettevano solo e soltanto i ricordi a cui concedeva il cibo più misurato. si sarebbe potuto definire l’uomo senza ombra, ma da qualche parte, lì in fondo alle sue necessità ordinatrici, erano quei sorrisi …
dalla piccola stazione, nel tiepido coagulare del pomeriggio, il treno ripartì con quel solito minuto di ritardo. su quella tratta era condensata la sua vita. andata-ritorno: più per eludere che per rendere un effetto. la circostanza del viaggio appagava il pretesto, ma non innescava, in lui, alcune fra quelle alchimie tanto care a chi sa l’intimità del viaggio. solitamente il viaggiatore sa fra quali obblighi manovrare e, determinandosi nel senso cangiante della meta, sa che è l’”attualità” a favorire la più inaspettata fra le circostanze. sul suo treno … nulla di tutto questo. osservava, invece, la mediocrità con cui gli involontari compagni di viaggio andavano sbarazzandosi del tempo, lì su quell’episodica ed indistinta trama. trovava oltremodo patetici l’uomo con libro o la donna con telefono mobile, ad esempio. Ne coglieva quei tratti che, a suo dire, manifestavano i più grandi tra i conflitti umani. la solitudine e l’ansia della vita erano i più evidenti dentro a quell’iterare d’occhi. uomo senza ideali e moglie con amante erano, della specie, i più comuni. nel “suo” treno la vita diceva parole e sulla tratta, la medesima vita non obbligava a dire alcuna parola. raffinata crudeltà.
tornava a casa. alle sue cose. al suo meglio. l’elettrotreno avrebbe impiegato poco meno di due ore, salvo l’insolenza dei classici imprevisti. abbastanza tempo. e senza tempo, tutto sommato. avrebbe voluto spingersi ben oltre, ma detestava il rischio più di quanto avrebbe potuto la gioia per un contratto chiuso. erano le cose semplici ad alleviarlo e a determinarne gli impulsi più vitali. erano le piccole cose a ricollocarlo nello spazio delle percezioni. il classificare tutto in ordine le cose di ieri come le cose di oggi era il suo magico unguento: retoricamente salvifico e spudoratamente salvante. le novità, come “quelle certe sorprese”, lo avrebbero obbligato a sentire più vita di quella che nel suo sangue era riuscito fin lì a pompare. gli bastava. si faceva da parte. non reclamava più di quello che s’era concesso. di qua era la vita e di là … poco importava. poche cose, ma semplici. che riteneva poco ingombranti. a destare i suoi interessi, di volta in volta, erano le sue calendule e i suoi “seriali” in tv. tutto il resto era un espediente di poco conto. come il mondo, là fuori. avvilente, col suo passato, soprattutto con quel pesante ammasso di proterve illusioni.
tornava a casa. in fondo era venerdì. quel minuto di ritardo avrebbe potuto essere affrancato, magari con una di quelle “pazzesche mentine”. se ne ficcò una in gola, per l’appunto … e quel “fuori orario” finì con l’essere quella sopportabile cazzo di una variabile. irrilevante. come il solito futuro da mettersi alle spalle.
sistemò il suo piccolo bagaglio nel vano portaoggetti. in quello strano viatico era l’indispensabile. i “fondamentali” per chiudere un contratto. i suoi attrezzi per le necessità elementari della vita.
il “regionale pontino 732”, delle 15 punto zero, attese un’altra manciata di secondi. alla fine riprese vigore. dal binario n°1. dalla sua banchisa. dall’incresparsi dei gerani nel colare del sole. alle 15 punto zero due, l’elettrotreno accennò ad una lieve spinta.
alle moltitudini della “centrale” preferiva i gechi e i silenzi di quella piccola stazione. in fondo era un metodico. amava il ripetersi. all’infinito.
alle 15 punto trenta sorrise. il treno andava allungando sulla tratta. di stazione in stazione. come sempre. nel colare del sole, fra elettriche palerie e visioni ulivigne. tornava alle sue perfette abitudini e alla perfezione dei propri snodi algebrici. alla somma delle sue parti. domani avrebbe festeggiato vent’anni di carriera. lo avrebbe evidenziato nel suo diario con una “X”. la ricorrenza tutta in un segno. avrebbe calcolato quanto tempo ancora. la sua natura mite lo avrebbe indotto all’immodestia. altre cinque “X”, si altre cinque sarebbero andate bene. alla fine avrebbe ritenuto che è solo una fottuta questione di tempo. come sul treno. coincidenze e ritardi non previsti, inclusi. aveva cinquant’anni. tutto ciò bastava. riteneva d’essere fortunato. e concedersi altro, al punto in cui si trovava, lo avrebbe trovato indecoroso oltre che pesantemente oneroso. si, tutto ciò gli dava la misura del compendio.
puntualmente, come sempre, alle 16 punto zero cambiò di posto. due vetture avanti. logica e metodo. concentrazione e pazienza. quel ripetersi, all’infinito. tra una donna con amante e un uomo con quotidiano sportivo. poco male. ancora un’ora. verso casa.
il treno giunse in stazione in orario. il macchinista recuperò quel minuto, tra una fermata e una lieve spinta. “solerte impiegato delle ex ferrovie dello stato”. dalla piccola stazione pochi passi. il piccolo paese, in fondo, era percorribile in un paio di minuti. forse meno.
era a casa. al venerdì. nella somma delle sue parti. fra le sue parti.
aprì e richiuse la porta. tolse le scarpe e calzò i sandali. dall’andito solo due passi. lentamente. un attimo. e fu tra le penombre dello studio. sulla savonarola poggiò “quel particolare viatico”. fece scattare la serratura e aprì la valigetta.
sorrise.
fedele. immarcescibile, sinuosa compagna.
nera. cromata, sagittale amica di sempre.
svuotò il caricatore. quattro colpi. gli altri due andarono a segno. in sagoma. nel cranio del cliente. il giorno prima. il suo “contratto”.
come sempre. preciso, pulito e discreto.
chiuse lo studio.
aveva tre giorni. solo tre giorni. prima di risalire sul suo treno e attendere l’innescarsi di un nuovo, lieve sorriso.
![]() foto di martina zingales |
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