pz.n. 121 il giorno perfetto secondo atto
di là del muro. di un passo oltre l’orizzonte. patetico arbitro, di sbieco alle prime congruenti formazioni di ferro, il solito cemento. la città, tra incisivi e puttane. intimamente, verso il mare, a galleggiare sull’inconsolato latrato delle cagne, solo ombre di containers e di vecchi silos: schiacciavento, per la gente del porto.
la città.
e gli “oboe” delle grandi navi da crociera.
l’inganno era evidente anche al più orbo tra gli imbecilli.

santa pace. d’altro la natura non poteva disporre, considerato che lì le nubi tossiche rassegnavano ancora ogni sporta di irrespirabile ed intollerabile elemento. alla fine, che fosse il rimpianto dei vecchi gruisti a sbuffare il grigiume, intorno ai “gloriosi e rivoluzionari” ricordi, era evidente più di quanto non fossero palesi le zaffate di merda sul torbido dell’acqua.
dal porto alla promenade, era il carcere. sul tratto, le losanghe robuste e i porfirici cartelloni pubblicitari suggerivano la colpa e la commiserazione: la faccia di un "dio idiota" da una parte e il braccio n. 5 dall’altra. ma l’intendimento dei creativi, a quel tempo, sarà stato proprio quello: determinare l’effetto al di là di quel qualsiasi principio estetico. alla fine, oltre le prospettive immorali, intorno le squallide piazzole, erano le consuete abbondanze, riprovevoli più della mente che, di tutto quel ben di dio, ne aveva elaborato il raffinato meccanismo.
dalla torre era tutto questo.
sbirri e puttane la sapevano bene quella parte di città. come i preti e i “mala” all’angolo.
semper avarus eget.
il primo fendente sbranò il centro del cuore. fra un battito e l’altro. in frantumi. tutto. tra condotti e ventricoli. ricordi e peccati. in fondo al cuore. crudele, spietato metallo. affondò sagittale nella carne, con quella violenza che è pari solo alla più agghiacciante e predatoria precisione. letale, arte. quasi bellezza. l’infinito apparve al primo getto. e fra porpora e fango, delineò in alto la conseguenza di un abisso. come quando è un sogno a radere il tetto. al primo inesauribile schizzo di sangue, quel sogno laccò l’intonaco. muscoloso. una gotica istantanea, oltre la morte. osceno. incapace d’amore. una visione pornografica. un vezzo da oligarca, al di là dell’irrimediabile presente in catene. una soggettiva lenta, disegnata in macchina per supporre l’aristocrazia di un alito. l’inferno tra gli angeli. e il morbo in paradiso, al di là dell’opinabile eterno. un primissimo piano e poi stacco. in nero. e il dolore in dissolvenza.
nel buio, la scena recriminò solo quel tanto di rispettabile ferocia.
il suono fu tra i più particolari. in natura non ne esistono di simili. neppure a volere rammentare l’avidità degli sciacalli.
il secondo fendente andò in vena. da sinistra a destra, aprendo la gola. un solo taglio. tra ossi e trachea. mozzando l’anima. tra libido e rimasugli di coscienza. rendendo il suo peso superiore soltanto alla capacità della misericordia. un solo atto. sbrigativo. colto. un’amputazione perfetta fin dentro il midollo. non fu più donna. nonostante le lacrime. il sangue fu sperma. a getti, fra tumulti di tendini e carne spalancata.
pam, pam, pam, pam.
sette fendenti. tutti in gola. con forza. tutti dentro. con amorevole cura. coito perfetto.
quando il coltello è un vero maschio.
un ultimo sussulto. un ultimo rigurgito. e la morte, apprezzandone il vigore, esplose in tutta la sua adorna freschezza.
la morte non fa male …
il cuore, aperto per metà, cessò di erogare miscele e battiti. e con quella tipica disinvoltura che è del più elegante tra i cavalieri nel punto esatto della disfatta. il muscolo, inopinatamente, concesse un ultimo lampo e l’atto sistolico fu negli occhi della vittima.
perché?
solitamente, alla fine, “tutto”passa da quell’indeclinabile senso di stupore … come se in vita, colui che va, mai avesse avuto il tempo di raccogliere un seppur minimo indizio e spiegare, quindi, le ragioni di un epilogo.
perché, amore mio? perché ….
iconoclastico dolore. tardi. e ricadde di spalle, con le pupille spalancate e l’anima, ancora per poco, appiccicata addosso. tra libido e coscienza.
fu calmo. misurato. come il tempo a quell’ora. non pretese altro che non fosse necessario: il buio, il silenzio … e il dubbio di dio.
ripiegò verso le parti nord di casa. la furia, impedendo al mondo d’allungarsi sulla punta del proprio asse, avrebbe avuto altri denti da accontentare. il tempo d’assaggiarsi nello specchio della lama, e frankie, piano, entrò nella camera di marco e matteo … quelli che fino alla soglia di quell’inesauribile tempo sarebbero stati ancora i loro figli. quattro e sei anni, dalla lieve punta dei piedi allo sbaffo di cioccolata sulla fragile ceramica delle loro labbra.
l’innocenza e la colpa, divisi dai vincoli posti dal più improbabile degli dei.
poco meno di 15 metri quadrati, e qui l’atto venne ripetuto. a ciclostile. in perfetta sequenza. l’incoerenza del ghiaccio e la verità unica del metallo. nessun altro dio, al di là dell’uomo, tra gli eterni assiomi. due fendenti al primo dei fratelli, cinque colpi a matteo. al petto e alla gola d’entrambi. conquassando. scannandoli.
erano innocenti, questa la loro inammissibile colpa.
alle sei punto dieci, frankie tornò dalla moglie. al di là d’ogni ragionevole dubbio … un marito esemplare.
occorsero solo venti minuti.
il moto circolare della striker fu avido e preciso. prima gli arti inferiori, alla fine il torso e la testa. la fece a tocchi e a pezzi la ficcò dentro ad uno di quei grandi sacchi neri.
finito d’adorare la moglie, tornò alle parti nord di casa … insieme alla striker. qui ebbe cura di cambiare il disco d’acciaio, con uno nuovo da quarantaquattro denti … meno aggressivo, ma altrettanto famelico e affamato.
occorsero solo quindici minuti.
al palato della furia.
per tutto il tempo, le "terze parallele" del k623 di "wolfgang", il prediletto.
di sotto era la solita paleria dribblante, tra contenitori e guerre di ratti. in mezzo la moltiplicante semenza di citofoni e inutili sensi rotatori. dalla torre, il porto e il tratto di strada, col cielo a piombo e gli “oboe” squittanti dal torbido della rada, tra l’estetica e i principi morali delle blatte.
perchè? sono il tuo uomo, unico dio e padrone.
un solo minuto alle sette, per dirle ancora ... "ti amo".
in memoria di tutte quelle donne ... calpestate,violentate, uccise, massacrate .... dimenticate.
RispondiEliminaoggi. per non dimenticare.
ma anche di tutte quelle famiglie che all'improvviso implodono negli acini secchi di una mente che non è più capace di amare, non è più capace di essere.
RispondiEliminami avvicino sottovoce ad entrambi i commenti!
RispondiEliminaGrande V. per il pezzo!