03 dicembre, 2010

pz.n,122 (autopsia di un dolore) di vitobenicio zingales


autopsia di un dolore

era una di quelle giornate che, nonostante il freddo, il cuore avrebbe imparato ad amare il ghiaccio. una di quelle che ficchi le mani in tasca e, sulla via del ritorno, il mondo lo sai dalla pioggia, piano, ai vetri di casa. la tua, terzo piano, arrampicando debiti, scalino dopo scalino, in fondo al corridoio dell'ultimo bilancio.

era freddo. come al cinema, nel buio e poltrona vuota accanto. come tutte le cose che la vita promette solo per imparare un nuovo, plausibile genere di ricordi. sola, come al supermercato, reparto cosmetici e piccoli specchi rotondi, di fianco e di fronte. una di quelle che, “dannato destino!”, solo dopo t’accorgi e, “fottuta circostanza”, c’arrivi sempre in ritardo, come alle poste, “turno 123 sportello 4”, due ore in piedi e, manco farlo apposta, devi sbatterti ancora e rifare il turno. una di quelle che la tua vita è dentro una busta per pizza familiare e ti risulta tiepido tutto, nonostante il mondo ti dice che hai vita abbastanza per l'ennesimo turno.
 
“ciao mà …”
“come va? stai meglio?”
“il solito!”
“hai preso le cose?”
“tutte … “
“chiamami se … “
“ti chiamo se ... ciao mà.”

quarant’anni e contorni, tra svincoli obbligati e irriverenti tornanti. patatine fritte e ketchup, una sull’altra e tutti i rimpianti sul traslucido bordo di un piatto di plastica. come nelle pause pranzo, lontana da  ogni tipo di chimico conforto.

ma con un solo blocchetto di buoni pasto non saresti andata da nessuna parte.
 
“le porto il dolce?”
“no, grazie … mi porti il conto.”

tuscè … impermeabile, cipria e fondotinta. e il solito marciapiedi a memoria. dal bar al tuo tiepido inferno era il cuore l’unico muscolo, ostinato a battere ancora. tre rampe di scale, neon a sinistra e le unghie laccate della collega a destra. null’altro, aldilà della pompa calore a bordo ring e del fax a portata di mano.

“secondo te?”

eri una di “quelle”. soliti quaranta, portati male, sulle spalle delle solite, stucchevoli promesse. sulla piazza, in reparto, la migliore tra le consulenti. malaticcia, smunta e livida: il male minore, l’avversaria meno temibile tra le colleghe in azienda. la tua vita, come tra gli scaffali di uno di quei tiepidi e caserecci autogrill: c’arrivi sempre in riserva, ma si ha sempre, nonostante la noia, un’abbondanza di cose da toccare, maneggiare e comprare.

“un mese … “
“solo uno?”
“non è il tipo ...”
“faccio fare a lui?”
“dipende … “
“da cosa?”
“vuoi incastrarlo o è da asporto?”
“ha avuto la proroga … è da incastro!”
“ma ha scopato tutto il reparto!”
“ci saprò fare … fidati”
“ok!”
“ok!”

tuscè … impermeabile, cipria e fondotinta, per sentire ancora virili i giorni che passano. e il solito marciapiedi a memoria. dal tuo tiepido inferno a quello più singolare di casa: bivani, con wcb e cucina abitabile. in affitto, transitorio, con piccolo ascensore compreso nel prezzo.

“ciao mà … “
“le cose?”
“tutte … “
“dimenticata nessuna?”
“nessuna … tranquilla mà.”
“va bene. ti amo.”
“anch’io.”
“notte.”
“notte, mà.”

la solita notte. lentamente irruenta. zanzare, frigorifero e telecomando: cruenti rapsodie ed emotivi trasporti. yougurt e medicina rossa, prospettive estetiche, strabilianti su tutto. enorme poltrona e le pantofole, quelle di “lui”, ai piedi. l’unico ricordo, il più caldo e sagace. l’ex, il tuo. il più vero tra i ricordi, non lui, ma le pantofole dell'ex, da pochi giorni tue … per sempre. il tuo orgoglio, le sue pantofole.

era freddo, nonostante quell’unico ricordo.

ti saresti dovuta accontentare e invece hai voluto fare tutto di testa tua. eccoti accontentata. blocchetto intero di buoni pasto e ultima diagnosi micidiale. null’altro sulla linea del cavedio, a parte la nausea controllata e, ai piedi, il solito rinforzo del tuo ex. avresti dovuto resistere. era un tipo da asporto, ma tornava sempre e comunque a casa. ti scopava, in assenza d’altro e di meglio, ma almeno te la raccontavi, la vita, pantofole comprese. cinque anni, incluse le trasferte, quelle di lui. inclusi i trattamenti ospedalieri, quelli tuoi. chissà come scopava le altre, chissà dove, chissà quando.

“ho preso questa … sono sintetici, ma sembrano veri … “
“grazie mà … “
“ti farà glam … “
“si … una vera signora.”
“ricresceranno … “
“lo so mà, lo so … “

il quando e il dove.

“benedetta malattia … ”, avrà pensato a quel tempo il tuo uomo da asporto. avevi una scadenza dentro al piccolo emiciclo della tua esistenza. saresti potuta crepare con le pantofole ai piedi, con un rigurgito di rimorsi e un grumo di sangue in fondo al palato dello sciacquone in corsia. santo lui, avariata tu. fine della storia. punto e l’amen in chiesa. invece hai voluto strafare.

faceva freddo quel giorno. blindata, andito e camera da letto. solo tre passi per una stronza sorpresa. avresti voluto più tempo, per realizzare e capire, ma quello era il vostro letto. cos’altro? nient’altro. il dove e il quando, lì … quel giorno, ed entrambi, lui e la sua puttana amante, a scopare il tuo tempo da donna avariata. nel tuo letto. 

“cazzo …”
“bastardo!”
“aspetta …”
“mi fai schifo … “
“ti prego … aspetta!”
“bastardo!”

faceva freddo quel giorno. di più: era la vita ai tempi del tuo colera.

il solito marciapiedi. la pausa pranzo. su quel disadorno lampeggiare di vite semaforiche, i deplorevoli sincretismi di sempre, ma oggi avrebbe dovuto essere uno di quei giorni speciali.

dall’altra parte della strada il tuo maledetto sogno: avresti voluto prenotare per tempo. tre giorni tre notti, incluso il servizio in camera, per il tuo natale santo.

“tum!”

l’asfalto. una scia. improvviso, da destra. carambola. l’impatto.
non ne eri sicura, ma lì e a quell’ora ... chissà che cosa. su quel tratto di strada, tra il tuo marciapiedi e l’agenzia marittima chissà cosa ... un filo di voci e di pianti isterici … la pioggia, il tuo cuore. si, il consueto scenario. un'incidente ... anche tu eri lì ...

“non toccatela … sono un medico … lasciatela respirare, cazzo!”

lo scenario. la scena. il sangue e l’asfalto. era freddo. il vento faceva il resto.

“la parrucca … cazzo."

la scena. la vittima disgraziata. chi era? dov’era? il quando, il dove, entrambi a scoparsi tuo marito, e le tue pantofole. la tua vita sullo spigolo del cavedio. il freddo e l’incoerenza del ghiaccio.

“ciao mà … “
“hai deciso?”
“si mà: prendo tre giorni.”
“sicura?”
“tranquilla … l’emocromo è buono … “
“bene.”
“me lo merito, no?”
“si, ti amo … “
“ti amo … “

era una di quelle giornate. e avrebbe dovuto essere speciale.

“mi sente? signorina, mi sente?”

la lama. il taglio, alla gola. lento, profondo, dritto …

“che stronzo!”

istanti.
nei tuoi occhi, i suoi. e gridava, cazzo se urlava.
la sua bocca dentro la tua. il suo respiro in fondo al tuo dolore. ma non era il tuo ex …

“ma che cazzo fa?”

ti baciava. l’antico sapore del perdersi. quel pastoso sentire di labbra. ambra e magenta, all’unisono … estetica schioccante. quel dolce confliggere di lingue. quel complice mischiarsi di vita tra gocce di saliva … ti baciava. uno sconosciuto scopriva la tua vita in fondo al palato, tra l’irrigidirsi dei tendini per quel sublime comprimere e sfregare insieme. fino a sentire il piacere in fondo, aldilà di quell’ingombrante turbamento etico.
fino a non sentire più il cuore. e perdersi.

“come si chiama? signorina … il suo nome!”

avrebbe dovuto avere trent’anni … le sue labbra esprimevano bellezza e gioioso mutamento. in quel muoversi dentro, in quel gesto, così selvatico e prepotente, erano il potente flettersi del piacere e l’assumersi trepidante della vita …
dalla gola scoppiò il sangue, il tuo ... poi giunse il dolore.
solo alla fine, l’asfalto, disimparando ogni debita prudenza, ebbe il coraggio di dirti come stavano le cose ... le cose del freddo.
avresti voluto aprire i palmi delle mani, ma aldilà dei buoni pasto, nel tuo pugno sinistro, erano pezzetti di vetro.
era una di quelle giornate che, nonostante la gioia di quel bacio, la vita avrebbe imparato altri ricordi.

vbz 

1 commento:

  1. non ho il libro delle facce, non ho pollicini da alzare, dietro quali barricarmi con un click.

    Ma alzo il mio.
    perchè sei grande.

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