09 dicembre, 2010

pz.n.123 uccidimi e difendimi da dio, di vitobenicio zingales



quadrilogia del freddo. II parte.
pz. n. 123
(uccidimi e difenidimi da dio.)
come nella nebbia, quando i fari non temono il ghiaccio ... e a quel modo, la gioia, nonostante il dolore, lo afferrava ancora per le braccia, dicendogli la vita.
faceva fatica perfino a tenere aperti gli occhi e ad ogni respiro erano cazzotti, in fondo al palato, tra fegato e avanzi … .

vigilia di natale. era il suo ultimo giorno.
in agenda, di visibilmente segnato, non c’era altro.
solo un cerchio, incorniciato attorno a “quel” numero.
rideva. sembrava felice.

dai vetri scorrevano le solite storie. quelle d’ogni santo di un giorno, tra il pompare metallico della H325 salue e il tamponare perenne della saliva.
uno ad uno, i platani, filanti a doppiare la prospettiva, lì ad immischiarsi al rilento andare delle fogne e del futuro di sotto. le macchine, cercando un’espediente a quell’ingrato contorcersi, vi illanguidivano in mezzo e soprattutto i semafori, su per i pali ricurvi, obbligavano a ragionare su quel tempo a tratti. i convincimenti, come le migliori tra le intenzioni, là in strada, erano sempre quelli, e suggerivano ai passanti di rivisitare i propri “azzardi” e a riformulare richieste più ragionevolmente accettabili in vista delle feste di natale. c’era spazio perfino per gli esitanti e anche ai più prudenti giungevano convenienti pretesti: al di là della più catastrofica diffusa opinione sarebbe bastato quel tanto per saltare il fosso e, in culo il mondo, tentare quindi, la sorte. le utilitarie in doppia fila, come gli spasmi dei clienti, da una vetrina all’altra, indicavano il sovrabbondare della speranza, nonostante fosse evidente a tutti il perdurante e nero clima generale. al rassegnarsi, si preferiva l’inferire di quel qualsiasi miraggio e d’obbligo era quel sottrarre forza al disordine … più per miserabili egoismi che per un più alto e altruistico intendere morale.    

dai vetri, i platani. con metodo e senza affanno, uno ad uno. ventisei ad essere esatti: tredici su di un verso e tredici sull’altro. chirurgicamente disposti, argentati e con le chiome traboccanti il cielo, in quella parte di città, facevano altezzoso il tratto di strada. le penombre ripiegavano sul tentativo dell’acqua e alla fine, quando le commistioni con involontari pulviscoli ingrossava la vena, era il solerte manovrare delle foglie secche a decongestionare la mandibola dei tombini. dai vetri ne sentiva l’accartocciarsi e lo spasmo liberatorio: delle foglie e dell’acqua. dalla mattina alla sera, goccia dopo goccia. quel sapore di fogna lo sapeva a memoria, cucito alle sue solitarie aritmetiche.   
di quegli inverni, dai vetri, ne amministrava le lentezze, ma evitando di condizionarne quell’intimo motivo d’essere, tanto caro all’idea che aveva del tempo. al contrario avrebbe subito il futuro e restituito all’ieri, così ragionava, “l’irriverente sorprendersi” degli idioti. avrebbe pagato con la sua stessa vita, rimanendo, suo malgrado, ancora appiccicato a quelle morigerate chimiche, e solo per sentire freddo o, tutt’al più, per morire di caldo. nel tempo desiderò, e più d’ogni altra cosa, l’iroso godimento dell’afa o quello per le “dolci” e tipiche rappresaglie invernali. quando si restituiva alle “proprie primordiali savane”, filtrava, con parsimonia, il pensiero di una femmina, tutto e soltanto per sé. dai capezzoli vigorosi a quei turgori osceni ed "eticamente animali".

gli mancavano, di tanto in tanto, la coca cola e il masturbarsi. della bevanda, schiacciando le palpebre, chiedeva di vederne almeno il frizzare dentro le rotondità di una bottiglietta di vetro; di quell’atto antico, invece, implorava quella parte ancora vigile della mente ad essere magnanima con lui.

schiacciando le palpebre, da cinque anni ormai.
una vita tra parentesi.
“va bene così, tesoro?”

le posizioni del letto verticalizzabile, favorivano la circolazione sanguinea, evitavano l’accorciamento muscolare e stimolavano il processo metabolico delle ossa. con il modello sprinter non era più necessario usare uno standing a parte e non era richiesto, per la movimentazione delle membra, l’intervento di personale aggiuntivo.

bastava “lei”.
il letto “sprinter” era un letto speciale che oltre alle possibilità standard di regolazione elettrica della testiera, della pediera e in altezza della rete, permetteva anche la verticalizzazione fino a max. 85°. grazie alle calibrate dimensioni, anche durante la verticalizzazione il letto rimaneva perfettamente stabile, permettendogli di guardare aldilà dei vetri senza inutili e fastidiosi sobbalzi.

schiacciando le palpebre poteva avere addirittura il sole in faccia.

il posizionamento laterale, soprattutto permetteva un più facile spostamento del corpo, portando le membra su un fianco, cosa importante per alleggerire le zone di pressione e prevenire paurose piaghe da decubito. durante il posizionamento laterale potevano essere utilizzate anche le altre funzioni per evitare una iperestensione del corpo e quindi d’imparare altri e furiosi ricordi.

insomma, in quel campo … il meglio.

“questa altezza, va bene?”
“si … ho tutta la vita davanti. perfino il futuro.”
“tiro giù le serrande?”
“no, le penombre lasciale ai morti. mi piace il sole, mi piace averlo in faccia. si … mi ricorda il mare. ancora funzionavo … e maledivo il mediterraneo … quel mare, era così freddo, ricordi?”
“preferivi bruciarti sotto il sole cocente … “
“e guardarti prendere il largo … “
“che scemo … “
“già … avrei dovuto avere più coraggio e nuotarti accanto.”
“avresti interrotto le tue letture.”
“stronzate: fingevo. ti guardavo scomparire tra le onde e aspettavo che il mare ti restituisse a me.”
“bugiardo e io che pensavo … “
“mi piaceva guardarti. tu e il mare finivate col diventare una cosa sola. alla fine cercavo di capire…”
“cosa … capire cosa?”
“cosa fosse più infinito … il mare o il tuo senso dell’acqua … “

schiacciando le palpebre poteva concedersi tutto.
a parte il sesso e difendersi da dio.
tredici platani in un senso e tredici nell’altro. due mercerie, una sul lato sud della strada e l’altra sul lato opposto; il supermercato, tra il quarto e il quinto dei platani, direzione nord-sud della strada; il giornalaio, all’angolo della prima traversa, lato sud-nord della strada; tre caffetterie, ridondando, quasi appiccicate una all’altra, sul medesimo lato della strada; il bar proprio sotto i vetri, l’asilo nido a pochissimi metri dallo spiazzale dei capolinea bus, una pescheria e una macelleria divisi soltanto da un civico pari; due incroci, gestiti da due impianti semaforici, quattro traverse con obblighi a destra e a sinistra, nel rispetto del senso di marcia, due negozi d’abbigliamento fashion, tra il terzo e l’ottavo dei platani e, alla fine, 24 tombini fognari, dodici per senso di marcia.

a parte il sesso e difendersi da dio, schiacciando le palpebre, poteva avere addirittura il sole in faccia.

“deciso? deciso amore mio?”
“il tuo senso dell’acqua …”
“il mio senso di cosa?”
“si … si, era più grande del mare. avrei voluto, ma avrei spezzato il vostro legame.”
“ti amo …”
“lo so.”
“non andare …”
“non me ne andrò …”
“abbiamo ancora tempo …”
“più di quanto se ne possa immaginare!”
“voglio che resti.”
“potresti dubitare del mare?”
“no, non potrei …”
“non ne serve un’altra di vita, allora. anch’io ti amo.”
“ci sarebbe ancora altro … da vivere, da ricordare …”
“altri ricordi? altrettanto belli?”
“altro … da ricordare …”
“ne vale la pena?”
“ne vale sempre la pena …”
“e chi lo dice?”
“potrei volerli io … quei ricordi”.
“ricordi … ricordi … ne abbiamo imparato altri, ma non è servito. la mia vita è dentro a questo pezzo di carne e tutto il resto è fuori … alcuni ricordi sono difficili da afferrare, altri impossibili da mescolarli al desiderio di tenerli fermi. come il mare, ad esempio. vorrei tenere dentro l’odore, ma a sfuggirmi è il senso dell’acqua. vorrei tenere dentro le cose d’ogni giorno, ma tutte le cose hanno una “pelle” e io non so come farle arrivare alla pelle dei miei silenzi …”
“i miei sentimenti … quelli li puoi sentire e toccare …”
“ma non posso strofinarmeli addosso …”
“posso ancora insegnarti  altri odori … altra pelle …”
“la mia pelle, non ha più udito. credimi … ho avuto e … ho te. si, questo mare mi basta. la fede ha un prezzo, ma la mia vita, con questi inutili resti, non è obbligata a giustificare a dio il senso della rinuncia. trovo che "lui" non abbia più pertinenze al riguardo e che i miei desideri abbiano pagato più del dovuto al sole degli impulsi …”
“e di me?”
“credimi: non ne serve un’altra di vita … e io voglio ricominciare a vivere …”  

sarebbe stato il suo ultimo giorno.
rideva. era felice.

oggi lo “avrebbe staccato”. avrebbe ricominciato a vivere.

“deciso?”
“nuotami accanto … per un po’ … si, solo per un po’.”

schiacciò, e saldamente, una volta le palpebre.

si.  

lei era le sue cose. la sua vita, l’andare d’ogni giorno. quel retorico fare alla pace. l’indifferenza urlata, didascalici amanti, al fare del futuro. il riconoscersi a sé bastanti, egoisticamente imperfetti e il sentirsi invincibili, perfettamente immorali. ma l’odore soprattutto, l’odore suo e basta. quell’aspro sentore d’anice dopo essere stati sesso. il suo odore, quello suo e basta. lo sapeva dentro, e sebbene non riuscisse “tecnicamente” a sentire più nulla, “sentiva”.

schiacciò, e saldamente, una volta le palpebre.

si.

la volle, per l’ultima volta, “tutta” per sé.
schiacciando tre volte le palpebre, le chiese di verticalizzare il letto alla massima altezza … per avere la strada e quello spicchio di sole invernale in faccia.
24 dicembre. vigilia di natale. anche dio avrebbe compreso.

si.

e alla fine, pianse.
fu quello il suo modo di dirle “grazie”.
sarebbe tornato a vivere.


ti amo … nuotami … nuo .. tami .. accan .. to.

solo un po’ di vento dagli scuri, con la sensazione di un odore. e l’immagine di un’idea che si faceva desiderio immorale e perfetto.

vbz

2 commenti:

  1. fa male sentirti così. sentire questa Vita così raccontata. fa male, ma al tempo stesso anche bene perchè tratteggi l'assenza di vita in modo tale da farmi apprezzare ogni singolo frammento di essa...

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  2. nel pezzo che seguirà, a cui sto lavorando, il 124, è la storia di una vita spezzata ... tutto il contrario, quindi, della storia raccontata nel pz 123.
    un abbraccio e sempre grazie per il tuo seguirmi affettuoso.
    v.

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