a martina, mia figlia.
il re nudo

mio padre, nello sforzo del dolore quotidiano, raccontava la vita, assumendo tra le mani quel tanto di cielo e perché insieme si potesse addolcire l’afa di "quello spago …" e allungare quindi, la speranza dell’aquilone verso il furore delle nuvole. restavano le mani e, tra i palmi, il rimorso moltiplicava colpe e miraggi. la sua vita, alla cerca di una testimonianza indifferibile e praticabile, tentava, nel sangue del sacrificio, segni al futuro, ma sembrava tutto vano e ciò che dello sforzo restava, era quel dolore … avremmo voluto inseguire l'america, tra le parole del telegionale e la fame che avevamo della gioia, e in quei raccordi d’azzurro gettare la speranza. ma si stava fermi, con un bagaglio sempre pronto. quel sottile eludere ci faceva siciliani nel rassegnarci e nel compiangerci. dai mercati al mare si discuteva di ciclopi e di circe, ma soprattutto di quanto fosse sconveniente recuperare dall’aspro della salsedine l’illusione dell’abisso. era la vita, più di quanto noi sapessimo essere bambini e se da quel mare si riusciva a trattenerne l’organza del ripetersi, l’asperità della deriva, subito dopo, tornava a galla. c’obbligava l’idea del pane ad avere fame e con noi non erano clementi sia i preti che i venditori di zucchero filato. bastava un cenno perché il bisturi dell’illusione incidesse le nostre carni ancora bianche. dall’altra parte del mondo era un uscio che nel frattempo mio padre sbrigava per tentare il rancore della serratura.
erano le estati e gli inverni del posto. non giacevano differenze, lì a spiegarne i transiti, piuttosto si preferiva l’accadimento in frontiera che il varcarne il rischio. le promesse erano lente, come il dissolversi della muffa dal desiderio di ricucire memorie. mio padre, a quel tempo, era troppo vecchio per avanzare la più piccola delle pretese e se l’incalzare dell’ago disegnava elementari trame, ci si lasciava andare più al gesto della paura che al furore del tentativo. si ricavava così quel tessuto particolare che, indossato più per il rancore che per l'entusiasmo, sfilacciava in quei pochi secondi di tragitto ... a noi giungeva solo lo sferragliare dell’idea, ma ci sfuggiva la malizia del treno … la vita era pronta, ma ubbidendo ai "grandi" dell'oratorio, lasciavamo in superficie il magenta dei demoni rivoluzionari. alla sera poi, quando le necessità di un sogno calcolavano le distanze tra impeti e tumulti, tutto tornava al molle afflato della circostanza: la casa lenta, il buio raffermo, il silenzio avido. e il peso tornava vuoto. rimaneva solo un letto accanto: disfatto e borioso. mio fratello ne indossava l’alterigia e non ne compensava il pianto.
mio padre, su per il tratto di strada, da mare a monte, da scuola verso casa, ci diceva che le parole da sole non bastano mai e che per quanto sia immenso il mare, non c’è vertigine che possa essere pari al vigore della calma. intendeva forse dirci che siamo sudditi di un cielo talmente distante che, per riuscire a vivere, è fondamentale disimparare l’arte dell’illusione. imparammo, in quel poco tempo, la colpa. i nostri convincimenti, durante quegli attraversamenti, cercavano pretesti, più che misure, e le terre, tra binari e consuetudini, che lì solevamo solcare, venivano presi con la medesima furia con cui il ritardatario, solitamente, ricorda -andando- il motivo della meta. e imparammo l’oblio.
era la città intorno a noi. a quel tempo i tralicci erano pochi e nello sforzo di fuggire il furore del sole, inseguivamo le carambole di una supersantos o il chiosare lento delle gatte al porto. si vibrava dallo scoglio a volo ad angelo, cercando nell’aria il vero modo di dire la vita … s’arrampicava la voragine, alla cerca di pozzanghere che gocciolavano gerani e solo per raccontare: quel giorno io c’ero. ma in città era tempo di confini e per ogni istante era una variabile frontiera. era lenta, la città. la furia del sangue s’informava ancora all’iperbola di un sogno e soprattutto in noi, già vecchi, quel pompare sconcio di desideri, generava chimere. non si era in possesso di alcuna particolare pertinenza e l’accidia aveva sia un peso che un effetto: comunque la vita, la vita era bella. sulla via verso casa, tra il duomo e i santissimi 40 martiri, la città scorreva di fianco e di taglio e alle spalle disegnava lento il tempo. agli angoli delle strade allungava sempre acerbo, il senso della disfatta: “picciotti” e “cristiani” in vinile gessato e puttane e sbirri nei colori d’istituto. ma chi se ne fotteva ... solo agli odori era concesso l’arbitrio: dallo strutto all’origano, dal rosmarino al basilico, e su per i vicoli trionfava l’isolana autarchia del palato … per quegli ossessi turgori d’acqua e su un filo di zammù.
mio padre, dalla sua lenta croce, ci diceva che, nonostante le lusinghe, la vita è la merce peggiore sul banco dei mercanti e che il prezzo dipende non tanto dalla capacità delle vene, ma dall’arte dell’incarto. così era per lo scorfano e il persico reale che, tra tonnellate ciano di calcagno e risulta onice di testicoli, strillavano, ancora guizzanti, per l’infamia con cui il ghiaccio rapinava alle squame loro il salmastro e l’anima. il tempo, giorno dopo giorno, ci faceva vinti, ma solo per il rispetto che si doveva agli zii del mandamento sul portale della chiesa madre.
erano nebbie di scirocco quelle che avvolgevano i palazzi e il denso della sabbia attribuiva al cielo un’eternità che sembrava non possedere. l’insistere di quei giorni non offriva alcuna certezza ai nostri convincimenti e in città si crepava più per diletto che per mano del veleno. erano letali il pane azzimo e il ferro a pallettoni. stupiva la calma, a tratti, nelle piazze, tra gli agri, al rione. stupiva quella fermità di viticci nodosi e neri, diradanti, inutili la rocca. sorprendeva quello scorzame di arance, là tendenti alla muffa. stupiva tutta quella vita, profumata, da acchiappare ...
ma era il ripetersi degli storpi. soprattutto erano gli imbecilli e i cortigiani di quel tempo.
“nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo. la messa è finita, andate …”
e in fondo a quel ripetersi erano … i preti e la cosa nostra discreta.
mio padre diceva che era il dolore dell’acqua. e che il ricordo celava le misure del danno più di quanto avrebbe potuto il sangue sul filo di una lama. tendevamo ad abituarci alla vita, dubitando di qualsivoglia slancio. ogni cosa doveva stare al suo posto e ogni cosa, diceva mio padre, fa santo quel particolare posto. al contrario, la vita veniva male e non ci sarebbe stato luogo o quartiere in cui poter indovinare l’esistere, semmai si fosse posto il sogno in luogo del ricordo.
mio padre diceva che i cristiani cambiano e le cose restano.
mio padre diceva che era il dolore dell’acqua.
imparammo a dimenticare.
imparammo a vivere con l’assenza e a mischiare i ricordi con lo strutto del rimpianto. fummo bravi a rendere discutibili le chimiche dell’imprevisto, timorosi com’eravamo del sapore del domani. rinunciammo ad inseguire le curiosità del tormento, preferendo all'improbabile, l’azzimo dell’oggi. rinunciammo a dare all’ago il peso di una trama e le nostre mani, scegliendo l'impeto dei "qualunque", rinunciarono a ferirsi nella vita.
e da quel giorno fu domani.
vecchio, ebbe solo il tempo di confessarci quell’incedere di acquerugiole sull’alzata dei corvi, a ballarò, tra i delitti del mercato e le merci dell’ignavia e che, fin da bambini, sapevamo dei principi di camporeale.

si … credetemi: avrei voluto essere un re, ma mi fu concesso d’essere soltanto vostro padre.”
morì solo, nel pompare del suo tiepido sangue. ebbe solo un dubbio, poi finì.
lo piansi solo io, suo padre.
Nessun commento:
Posta un commento