palla di grasso
lola fu la prima. per lei imparai i cazzotti. e la strada. per lei imparai il sangue e le cose che facevano male. a quei tempi erano le "parole" e metterle una dietro l'altra faceva "toco" e segnava quei punti che avrebbero potuto portarti dappertutto: volendolo, anche nel centro del culo del mondo. bastava quel tanto di pelo o uno di quei gesti froci e ti giocavi la storia. soprattutto la reputazione da duro. ai suoi occhi ero un dio. nel giro contavo come il meglio "zio" fra i più cazzuti dei mala. erano tempi che te li bevevi lenti, goccia dopo goccia. tutti ... dalla prima all'ultima, fino a quando ad un qualche stronzo non gli veniva in mente di spegnerti il film. e in mezzo era di tutto. dagli sbirri bastardi, ai picchiatori in borghese, dalle "vespe primavera", ai collettivi rossi. tutto: dalle pestate in questura, allo "sbocciarsi" un camerata, dall'acido degli angeli, alle signore sparanghe di ferro. si, erano tempi che la città ti riconosceva quei tanti diritti del cazzo, sopratutto erano i giorni in cui il film della vita te lo potevi inventare dall'inizio ai titoli di coda. con tutti i colori del mondo e in mezzo nessun intervallo a macinarti le palle.
fino ai nostri fottuti vent'anni.
guardo il mio regalo. sei colpi filanti. nel tamburo. d'acciaio. cromata ad effetto. calcio in presa e potenza che squarcia.
è per la fine del mese. la cosa la facciamo seria.
domenica che non ne vale la pena e il mio piscio conta come la voglia di farmela addosso.
avrebbe dovuto essere diverso. e invece. oggi è solo vetro dentro alle mie stronze pupille. e l'orizzonte che mastico è in fondo agli incisivi del fegato. vetro e cemento. e questa signora calibro "38". è il colpo numero 11. il mio numero 11. mi faccio le banche. questo è un lavoro serio. l'ultimo, per dio! così sto a posto. e schiodo dallo sperone, dai miei vecchi e da 'sta merda fra polistirolo e cartone.
avevo vent'anni. mi piaceva fare a cazzotti. non capivo a che servivano tutti quei sogni. ma per la rivoluzione di lola, un culo fascista da rompere ne valeva la pena.
soltanto due passi. di corsa. e la rivoluzione fu tutta a i miei piedi. macchiandomi le scarpe. come quella vernice rossa che colorava a sbalzo i sogni di lola. il colpo partì da lontano. preciso, filante. secco, vigliacco. e la inchiodò. all'istante. sul posto. cadde di fianco. tenne gli occhi aperti sui miei. poi giunse il sangue. inarrestabile. indegno. indiscreto. dal naso, dalla bocca. pochi istanti e ... e quella macchia diede un senso al nostro piccolo pezzo di strada. mi piacque crederlo, ma andò via sorridendomi. tutto durò poco. troppo poco. ma abbastanza per capire che da quel metro quadrato di merda avrei dovuto schiodare. all'istante. come quel colpo di calibro 9. filante. preciso. infame e vigliacco.
è una di quelle stronze domeniche. una di quelle che ci stanno solo per starci. di sopra e di sotto. che ti fanno il culo se non c'hai l'occhio vivo e lo scatto lesto di mani. nel cuore del fegato. nel clistere del cranio. niente. col sole a spasso di sotto. fra sponde, parabole e tralicci, là sul terrazzo di sopra.
e alla sera non cambia. poco prima del buio più ladro. il bar e palla di grasso, i viali e quel muro fottuto. la prospettiva dal mio quarto piano sprofonda lungo la linea dei pali. come sintomi di cipressi. che censurano la vista al tanfo dei morti e l'udito al respiro dei vivi. non c'è niente aldilà della linea che guardo. solo silenzio. munnizza e nera bambagia. poco prima del buio più ladro. ogni giorno. feriale e festivo non conta. qui è di numeri che si parla. uno appresso all'altro. uguali per genere e specie, simili per rabbia e miseria. "totò" il chincagliere, "antria" il robivecchi, "fofò" il lattoniere, "aspano" il "mulunaru", "calò" il panellaro". numeri. numeri più infami del nome che portano, più indegni di chi ne ha inventato lo schifo. numeri che non portano da nessuna parte se non tra le fogne di "sant'erasmo" a brancaccio. numeri che contano meno di quanto "viene" un voto al "solito amico". e infami come il sapersi arrangiare per fottere la legge per quelle due lire schife di pane. dal mio "quarto" è quello che vedo. ed è quello che sento. nient'altro che paralisi d'acqua. in città, la periferia più estrema tra la "puttana miseria".
ore 20 punto zero. a casa. con i miei vecchi. alla domenica. palazzina 13, scala "f", interno "22", piano quarto. allo sperone. con tutto quel mare davanti. di sotto ai miei occhi. quel pezzo d'acqua. che oscilla dal nuovo fango al vecchio scolo. su quella linea di scarti.
anche al bar è silenzio. palla di grasso conterà lo "sgobbo". fra monete e ricotta scaduta da ficcare nel frigo. a cento metri, girato l'angolo, è il "24 barra 5", scala "f", interno "12": il suo buco di merda. filippo. palla di grasso. colla faccia tonda e i brufoli minchioni. senza età. che non lo sai quant' è vecchio oppure fa finta ed è già morto crepato. brutto. come la sua anima di plastica. sporco. come la sua dignità di fango colante. lesto di lingua con i morti di fame e capace di culo con i peggio fra i meglio mafia al rione. come il suo alito. come le promesse degli ultimi finocchi in gessato al quartiere. quelli con gli sbirri a guardargli il culo e le spalle per tutte le minchiate che sparano a salve. ed è buio allo sperone. ladro. come le stronzate che alzano i miei occhi aldiquà del crepitio di una pallottola vagante. sparata per sbaglio. o per spaccare il culo al solito indegno croato che non vuole pagare il dovuto per lo sgobbo di piazza.
alla fine zaffate.
la mia "38" giace inerme. di fianco ad un cristo di legno.
fuori è silenzio. e il nero da un paio di minuti ormai colma discreto sul freddo bitume di quel cazzo di un viale.
m'attacco alla bottiglia. solo un goccio. sempre l'ultimo. prima che l'ombra diventi obliqua nel vetro freddo dei miei occhi.
il mio regalo è sul comoddino.
ho solatnto una vita e, beccato lo stronzo di turno, 6 colpi da sbattere in sagoma.
da "palla di grasso", 2009, vitobenicio zingales
foto di martina zigales
foto di martina zigales
tu lo sai quanto queste parole mi abbiano commosso. tu solo lo sai.
RispondiEliminaper chi non lo sapesse...
http://www.youtube.com/watch?v=i37jXAKKayg
ti prego vitù: merita il teatro!!!
lo porteremo anche lassù ... lo merita la gente che onestamente tra quelle periferie si smazza, crede e si sbatte.
RispondiEliminagrazie tesò ....
è stato uno dei periodi più belli e faticosi della mia vita: piantare i chiodi per lamostra, portare bottiglie e succhi per le prove, lo sfoglio di carne per corrado... il valzer su sabbie immobili e la pioggia e la tonnara e cazzo troppe ce ne sono per dirle...
RispondiEliminaPoesia. Non serve aggiungere altro!
RispondiEliminale parole di vito sono quanto di più lontano ci possa essere dalla poesia...
RispondiEliminaun conato di vomito tenuto a stento che te lo ricordi. coraggiose e perentorie. non passano una volta dentro.
...ma immagino...cosa volessi dire...
sono quei cefali dal fondo dell'acqua che a vederli gridare ... caro peppe ... sono quei tanti che per una lisca di scorfano dimenticano quella prospettiva di pali ... dalla mattina alla sera. e noi "d'impatto" a dargli una voce. grazie pè ...
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