19 maggio, 2010

"fandango" di vitobenicio zingales

( tratto da "là, oltre i campi di sfaax". ibiskos editore 2002.)

“la mia naturale inclinazione a sovvertire i canoni di certa obbedienza, mi ha procurato, nel tempo, quei piccoli fastidi che un uomo per bene registra, tra le cose dei giorni, come fatti essenziali. ma tu, ragazzo mio, sai come sono fatta; io non sopporto le aberranti convinzioni che si celano dietro le giuste forme di una legge o di una convenzione come se fossero mistiche partiture nate prima dell’idea di Dio.
Non sono mai stata bene in società, forse perché le mie conversazioni con Dio non hanno prodotto quello che avrebbero dovuto produrre, che è nella sostanza ciò che la gente dai salotti avrebbe voluto far nascere in me: le regole, le buone maniere,la buona creanza e l’incondizionata osservanza alle mirabili norme del tempo.
Ho sempre affidato la mia vita alle cose della terra che di gran lunga sono risultate più ferme rispetto alle alterne ed improbabili certezze dell’uomo e non soltanto perché la mia indole pervicace mi abbia spinto nel passato a considerare la sostanza umana molle e mutevole, ma il fluire dell’universo mi ha attraversato il cuore con la semplice alternanza delle stagioni, lì tra i prati di casa. estate ed inverno esplodono da sempre con le primavere e gli autunni che s’inseguono nel rigore delle cose. Dio è nel fiume, come nelle mie mani, quando carezzo la corteccia di una quercia malata. è tra le spighe quando queste s’imbiondano di vita per farsi pane. ed è nella rugiada al mattino quando questa lumeggia nel rosso velluto delle mie rose. lì, nella vita tra i campi, nella perennità delle pietre che sovrastano le deboli parole di città, il seccame degli armenti profuma di dolore ed imperituro sacrificio, ma, ragazzo mio, non c’è regola, per quel mandriano, più forte del “rigore delle cose” che si ripete nei millenni per la bontà di mai operose ed impavidi cuori. la buona creanza e la regola tra le vacche nascono, forse, dal battito del nervo, ma tra gli uomini, talvolta, il susseguirsi della norma evolve nella rigonfia pastoia della propria stupidità.
figlio mio, non lontano dalle acque del san pedro, tra durango e steigarte, la vicenda si ripete nel ricordo di un delitto, come se l’insopportabile peso dell’imbecillità non avesse già e fin troppo logorato il gonfio alvo della storia:a milador city, il giudice e il pretino della contea, non hanno “autorizzato” le cristiane esequie ad un piccolo balordo morto di tequila e povertà.
ho pianto per quel figlio, ma le mie lacrime, come quelle strazianti della madre, non hanno raggiunto il cuore di quell’infallibile uomo di legge … ed ecco perché torno all’immensità dei miei campi, dove le terre brune, nella semplice cadenza del sole, ricordano alla perseveranza delle formiche, l’antica promessa fatta alla vita.”







e da quelle acque, leggendo mia madre, i miei ricordi ricominciarono ad emergere.
… era bella, più bella di una sposa. era la sposa aldilà della polvere di durango. soledad ramirez vega, ricordo che era raggiante quando fu data a miguel chinao espinoza nella primavera del 1983. sul sagrato della chiesa rosa s. francisco escobar non c’era fiore o stella che scintillasse più del verde che vibrava nel mare dei suoi occhi e in quel sorriso, credetemi, sembrava scorrere tutto l’universo che affoga nelle acque del san pedro. io ero l’”amico lontano” di Miguel. il sindaco e il prete mi vollero con loro per brindare e far baldoria tra le lentezze e le chiacchiere dei chicos. soledad brillava di vita come non mai e la luce che le danzava intorno sembrava esplodere come i botti luminosi per la festa del santo degli ultimi a zacatecas.
a turno tutti i maschi del paese vollero ballare con la giovane moglie del san pedro e soledad, raccogliendo desideri e ammiccanti provocazioni, a quelli gli fu sposa … anche se solo nel tocco intenso di una tromba e di un antico banjo. soledad era donna … e sposa e nonostante là vi fosse il prete a ricordarlo, penso che tutti, in quel momento, ne abbiano desiderato la sacra verginità … ed era troppo caldo perché la carne non bruciasse nell’indecenza di un desiderio così languidamente proibito.
(…)
e ballava, ballava offrendo il porpora delle sue labbra e l’odore muliebre della sua pelle. in quella mischia di colori, di aneliti e passioni, tutto il messico danzava per lei. era il fuoco. e l’aria. io inseguivo quegli istanti come se fossero falene azzurre da scolpire nel cuore, ma il vento, che dalle spighe di tucson frusciava fino ai saguari del fiume san pedro, ne invogliava il volo e, inevitabilmente, quegli istanti, da lì a poco sarebbero fuggiti liberi tra le nuvole oltre le guglie di vera cruz. miguel chinao espinoza, di vent’anni più vecchio, col suo sporco sigaro e coi vestiti buoni della domenica, girava negli occhi dei parenti e delle prosperose senorite, pronto a misurarsi in scommesse di terra tra giumente e grassi raccolti … e dal suo labbro sottile uscivano parche promesse, solide e forti come la prudenza, attente e misurate come le certezze che sovente i preti fabbricano nel dire la messa.
dall’altra parte del cielo soledad già si perdeva ballerina. nel caldo, nella vertigine di una danza e io, con gli occhi cuciti dentro l’anima, ne catturavo incipienti riflessi di piacere. ricordo che la terra, abbrustolita dal vigore dei sensi e dal luccichio del sole di sonora, sembrava perdersi nella frenesia di quel ballo e alla fine trasformarsi in una tumultuosa arena infiorata di cantilene ed urticanti nenie messicane. e inseguivo il suo sguardo, come un ladro, cercandone notturni ed insatollabili intendimenti.
inseguivo quel verde d’occhi, tentandone la complicità. avevo vent’anni e la vita bruciava dentro alle mie vene. la mia era insaziabile imprudenza. fu lei, invocando un fandango, ad entrare furtivamente nei miei occhi. ricordo che si liberò dalla mischia e piano, attirandomi dentro a quel gocciolio di fatale sensualità, m’invitò a danzare il ballo dolce delle praterie americane. in silenzio. col solo gesto del sangue. intendendoci. lentamente lo dissi alla terra. dovevo mettermi nel sangue tutto ciò che di bello era al mondo. e con quegli anni che sembrano di più. le camminai incontro. con i miei yeans sdruciti. gli stivali di cuoio. e la mia camicia bianca, di seta, quella buona per le feste. quando fui a pochi passi dalle sue braccia, incominciarono a venire su: e con quel fandango tutto il mexico danzò con noi.
mik isizureta … da xelosas.
soledad, dal cuore di durango! yà està! de jaime ver …
m’impressionò il tono della sua voce, come quell’improvviso scatto verso le mie mani … e dentro me, intuii che quello era ciò che voleva. la sua voce, come i suoi occhi. perdendomi.
girò più volte su se stessa, carambolando, sul sapore obliquo dei caldi cascabel e, planando tra le cose che sentivo nel cuore, ci perdemmo nell’irripetibile magia di quegli istanti. incominciammo a correre da una parte all’altra del sagrato, intrecciati, uniti. uno. dentro. la ribalta in un improvviso e ventrale torpore, ricordo che sembrò ammutolirsi e nel colare della penombra le scommesse di miguel chinao finirono per essere monche parole sul pattume della sua bocca. tra gli incisivi perse il piglio. soledad, in quel lampo di segrete intese, fu mia sposa e il prete, lì in un angolo, tra i basaltici tratti della chiesa, potè far poco o nulla per impedire a quell’irrefrenabile passione di far battere “vivo” il cuore a quel messico ribelle.
i nostri corpi … fuggivano. giravano. volavano. e come una falce che sgozza l’oro alla testa del grano, la mia soledad ballava, mostrando alle voglie conturbanti dei campesinos il rotondo e delittuoso ancheggiare del suo essere perdutamente femmina. le sfiorai il petto prima con gli occhi. poi col mio sudore. d’ambra che colava.
(…)
non ricordo cosa mi spinse a farlo, ma immaginate quando il mondo è lì, nel vostro cuore. tutto. che una sola vita non basta a raccontarlo.
ci fermammo. nel centro esatto. da una parte i campesinos. dall’altra il cristo. come quando è il tempo. e a lungo ci perdemmo nell’eternità di un bacio.
nessuno mosse un sol dito. fu silenzio. e noi. in quel bacio. come il mondo. da una parte il Cristo. e dall’altra la terra dei vaqueros.
un bacio. un corpo. uno. dentro.
poi il silenzio divenne altro. mormorio, prima. chinao, dopo.
e mi allontanai dalla sua bocca.
immagino che capimmo in quel momento il tempo. e il mondo.
lei fuggì tra le conquitas a ridosso della croce. io rimasi nel centro esatto del sagrato.
decisi che era meglio togliere il disturbo.
lentamente, prima. immaginate, dopo.
girai i tacchi e ancora una volta a vent’anni. avevo il cuore gonfio di fandango e di una donna bella come il mondo. rossa. e in un sorriso. che da solo salva il mondo. dal buio.
pochi istanti dopo, la musica ripartì e gli sposi, con i parenti tutti, dal Cristo di zacatecas all’ultimo dei vaqueros, immagino che ripresero da dove furono interrotti.   
lasciai che il mio elettrotreno inghiottisse tutta l’aria di quel tempo, ma meno che mai e per tutto il tempo che volli liberai dalla mia memoria il sapore di quel bacio.
non rividi mai più soledad ramirez vega e quello fu il mio ultimo fandango.
ero partito da omaha nell’ottobre del 1994. la lunga strada mi portava giusto da mia madre. bestioni da dieci tonnellate sfrecciavano sull’asfalto. vecchie e potenti spyder degli anni ’60 andavano al trotto, godendosi i lunghissimi rettifili della statale.
forse tutto il mondo era là. in quelle velocità anonime si perdevano le celebrazioni delle nuove ed incomplete solitudini. tutti erano in viaggio, chissà per quale destino o per quale desiderio ancora incontaminato. la statale sembrava accudirli. molti avevano fretta d’arrivare. alla meta. e ripartire verso altro, da celebrare. altri nonostante l’apparenza restavano incollati al solo desiderio di un oscillare lento.
ai lati della grande strada, vivente e immobile lo sterminato deserto.
e io … aldilà dei vetri.

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