17 maggio, 2010

"parole di fino.d'anima.e di lisca" di Vito Benicio Zingales

A cura di Gianluca Vavosotto e Francesca Uva



E c’erano parole che se stavi lì a “berle” era come quando la buriana ti colpiva in faccia, di mezzo, nelle cose del sonno, e tra le vertigini d’ogni tuo peccato. Forse era per via di quello che i cristiani al paese andavano dicendo. Si, quelli che per farsi la “scrima” andavano tutte le sante mattine da Giovanni La Grassa, il barbiere, “u ‘mericano”. Erano parole così forti che ti mancava l’aria solo a volerne comprendere il “fino” che ci stava di sotto. E di lato. Di sbieco. E a sgricio. Forse, a quei tempi, ‘ste parole, i cristiani se le andavano dicendo nel “silenzio dell’ora”, quando il carrubo, nella penombra del baglio Sant’Elisabetta, stava dritto in amore. E al paese la “sputa” che scendeva da quella corteccia, almeno coll’occhio, era “la meglio” per “insivare” mosconi e cornuti. Io penso che quelle parole a piombo è di là che scendevano. Come cartocci di “12”. Quelli che “inchiummano” anima e carni senza passare neppure dal peggiore fra i santi onorati. Quelli che “piantumavano” a sangue e a sperma la terra fra le biondanze degli agri. E quelle parole i cristiani dicevano che venivano da Dio in persona. Non l’onnipotente, no … di più. Il cristiano che per bocca e per spirito, avendone il possesso, era quello che teneva la “cosa tutta” tra infami, animali e cristiani. Quello che aveva la “guardiania” dell’acqua, dalla prima “ciaca” all’ultimo quadrato di vento. Quello che alle carpe insegnava come parlare con un po’ d’aria tra l’intimo delle squame. Quelle erano parole. Questo dicevano i cristiani, quando le loro “scrime” erano cose di Giovanni La Grassa.

Io all’ ”onnipotente” non l’ho mai visto. Eppure, quando mio padre mi diceva di quelle parole, era come se c’avessi avuto una di quelle “lische” pronte a scassarti la gola. E il sangue. Credetemi erano parole che se ce la facevi a seguirne il verso, poi t’accorgevi che erano il cielo e l’acqua, come il ghiaccio all’inferno. Io avrei voluto impararle e dirle a mia volta. Ma ogni volta che ero lì a inseguirle pronto e schietto, quelle se ne andavano, come le femmine al “corso” alla sera. Se ne andavano. E non se ne pigliava neppure la stizza. Se ne andavano. Scomparivano. Mio padre comprendeva quel farmi maroso nero dentro. Talune volte rideva. Altre si alzava, spingeva la lampada e diceva che era già sera.

E me ne andavo più picciotto nel cuore di quanto avesse mai saputo sopportare la mia vita, tra anima, lisca e peli.

Col tempo venne il tempo. Della sputa e dell’ombra. Del filo che fa l’aria tra le squame delle carpe. Dei cartocci nello sperma del sangue. Ci volle tutta una vita per capire. Giusto il tempo per cominciare a capire. 

E c’erano parole che…. 

E ora sono mie.

Le parole dei morti.

1 commento:

  1. parole in grado di graffiarti l'anima... riecheggiano nella tua mente... indissolubili... indimenticabili

    gran bel pezzo vito... che dirti ogni volta un'emozione

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