31 maggio, 2010

Là oltre i campi di Sfaax

Prefazione
"Immaginatevi il sole, con i suoi grandi occhi sabbiosi, stendersi a dormire. Non fosse per quella gran luce scarmigliata, lo si vedrebbe subito, che anche il sole ha le sue spine. E, forse, quelle spine sono solo storie.
Una di queste è la mia. Una promessa che lega e ti porta a guidare per molti roventi chilometri, fino alla terra dei miei padri.
Mik Isizureta, per mantenere viva la tinta della vita.
Nel viaggio, sulla strada, il canyon del mio passato e l’olio di una libertà appena spremuta. E lei. Gli occhi verdi di Soledad: un gesto di verità. Un’amaca di freschezza dopo il temporale, quando in terra, sotto di te, si allarga una macchia di sole. E loro. Ferruccio, El Cico, il diamante di Isabelita. E chi è morto senza cristiane esequie, tra tequile e povertà.
Laggiù: il New Mexico, che costruisce il mio attonito morire.
Ed io, adesso, che chiedo a voi: suonatemi un Fandango. Per quella sposa vergine che ho avuto anche solo per un istante. Per Maria, mia madre, e il rigore delle sue cose che mi aspetta su un pontile. Per la mia Camaro che ha visto più storie di quante ne possa raccontare, per quella mazza spezzata nel cuore di un incontro.
Suonatemi un Fandango, vi prego. Lasciatemi danzare tra le folate calde del vento di Sonora. Suonatelo per la mia Xelosas. A cui sono rimasto fedele sempre, e che ho tradito sempre. Entrambe le cose amandola."

Monica Lo Iacono



vitobenicio zingales. là, oltre i campi di sfaax. l'isabelita. prima puntata.

carissimo mik,
avrei voluto scriverti molto tempo fa e probabilmente per un motivo migliore di questo, ma la vita è una di quelle cose che più ti metti e più non le sai, come le strade quando attorcigliano viralte, tra filari di corvi e morbide gettate di more. eppoi sono vecchia e tutto questo affollarsi di giorni intorno ai miei occhi, mi stanca. e parecchio. preferisco che il tempo, da qualche parte, non so, magari vicino il guantanamo, abbia deciso d’essere un po’ più prudente e che vi stia aspettando. si, su di una fra le sue rive, per le solite “agguerrite” scorribande. ma anche qui, dalle nostre parti, perfino il cielo pare che muti di nuvola in nuvola. forse perché ho poco tempo tra le mani dell’anima, forse perché è nella vecchiezza a spalancarsi il grande segreto di cos’è la vita, ma quel poco tempo che Dio mi concede ancora di vivere, lo vorrò trascorrere sognando. è da diversi giorni, figlio mio, che m’affaccio sul ripetersi del mare, inseguendo, ora un tratto d’acqua e ora uno schiaffo di vento, lì oltre la grande linea di cortez. ne sono certa, ma da uno di quei punti, dove il rosso cala nel precipizio liquido dei suoi segreti, apparirà il mio “veloce aeroplano” e col suo grande capitano. è questo che vado sognando mentre una ad una le nuvole mi passano sul ripetersi dell’onda.
talvolta corro al guantanamo. mi fermo al sessantesimo tra i passi, sul legno del pontile. sull’orlo che il cielo fa con l’acqua. e piano, lentamente mi lascio coccolare. l’anima e il mio tempo dentro. nell’acqua le solite carpe accennano ad una qualche parola e, come accade nella stagione degli amori, fanno le storie di sempre, tra un guizzo d’oro ed uno di quei sbrilluccichii di squame. quando è sereno, ed è l’azzurro calmo, la medesima scintilla fa il fervore dei vecchi tempi, lì per tutta l’acqua del lago, e la sua eco, palpitando sull’onda, pare che propaghi fino alle nuvole dov’è l’arancio di oràntes. ora che le vostre voci si perdono soltanto nella mia memoria, qui al lago è un silenzio, ma un silenzio che a volerlo c’entrerebbe tutto il mondo.
alla fine, quando l’acqua ribadisce l’infinito, m’addormento. ed è un infinito lento, che s’accompagna alla mia vecchiezza dentro. chiudo gli occhi, piano. lentamente. come l’aria nell’acqua. in un sussurro. lieve. e m’addormento, sull’iterare dell’immenso. forse è la vecchiezza, ma è lì che sento lo stropicciarsi dell’onda per quella salve di sassi, proprio là, in quel tratto, dove tu, usè e ughito, il supercanebracco, dritti fra i saguari e con le fionde sempre cariche, aspettavate l’angelo col missile mondiale … “
lessi e rilessi quella lettera. parola dopo parola, fermandomi mille volte, tra un frammento e l’altro. mille volte, fra l’accendersi dell’acqua e l’incupirsi del rosso. mille volte, il sapore di mia madre.
ero già in viaggio, da un giorno. correvo da maria isizureta.
quelle parole giunsero a casa mia il 4 ottobre 1994. non vedevo, né sentivo quella donna da parecchio tempo. mi mancava.
“sai, desideravo anch’io incontrarlo e mi mettevo piano sulla scia dell’orizzonte, da qualche parte, là nel cielo. a modo mio anch’io sentivo d’essere tra le cose della banda. alla sera, quando ‘s’anneriva il colle, tentavo con le lucciole, giù nell’incresparsi dei gerani. avrei voluto un segno da loro, una parola. un guizzo ad indicarmi la strada. alla fine erano penombre, nel dileguarsi degli anfratti molli per il muschio e per il frusciare del grano. rimaneva un bagliore, anche alla notte, che faceva pozzanghere di cielo. fino alla redola di casa. era quel nero che giungeva dalle colline di zacatecas. anch’esso, un nero calmo.
da un po’ che sono vecchia. e da un po’ mi chiedo semmai quel “mondo” sarà bello come il nostro mondo.”
indugiai sulle parole di mia madre. avevo già percorso mille miglia dal giorno in cui lessi la lettera. il nebraska era già un ricordo, come le praterie del texas. sulle parole di mia madre, tra una stazione di servizio e l’altra. erano … frammenti. di cielo cosparsi di ricordi. come stelle. sulla strada, per il ripetersi dell’infinito.
ne scelsi uno, come si fa con le cose che vuoi portarti dentro. sempre. rallentando, spensi la camaro e decisi per saxantla e il giorno della “partita”. solo un istante. solo mio. il tempo di ricordare quell’ultima folla, gli applausi, la magia e quel fuoricampo. bastò. come le cose che fanno bene al cuore. ripresi la strada. risalii su per l’ultimo tornante, arrancando sul brecciame lento della “nazionale”. il cartello, bucherellato dai “calibro 12”, indicando località e numero di distretto, invitava al rispetto di alcune prescrizioni. io mi limitai a tenere la mia destra e a raccogliere più aria possibile per il mio ricordo.
la periferia di saxantla, seicento chilometri a nord di xelosas, con le sue casupole bianche e le sue immagini di pietra, pallide e rotonde, giaceva, ferma e immutata, come tra le mani del solito vecchio futuro ... mi fermai. mettendomi tutto alle spalle. adagiai la camaro a ridosso del “vecchio cancello”. l’”isabelita”, il “diamante” di saxantla. era tutto nei miei occhi, tra casa base e monte di lancio, fra seconda e quarta base e l’ondulare mistico dei tralicci, proprio sotto la sponda dell’azzurro, in periferia. scesi dalla macchina. tirai su col naso e chiusi gli occhi. l’aria era sempre quella … la mettevi dentro e quella t’arrivava dritto al cuore. il tempo, tra le quattro basi del quadrato, nonostante le promesse e il “futuro”, galleggiato sulle pozzanghere del campo, lì sembrava davvero essersi fermato. l’erba, i soliti “fossi”, i vertiginosi tralicci con le solite due o tre lampade mancanti, i vecchi spalti in cemento, l’antico cancello rosso. Dio.
era un venerdì di un tempo indimenticabile.
eravamo tutti là. la stagione era sempre quella. l’estate delle solite ed insopportabili calure giungeva all’improvviso, portandosi dietro i toni obliqui e sferzanti del vento di sonora.
era caldo. e umido. di zanzare. e schiaffi. per la fame, e non solo per il vento dell’havana. al campo, il tempo non faceva rumore e sebbene il sole s’illanguidisse sui toni smorzati delle calendule, le nostre parole continuavano ad essere tonde come quelle antiche promesse. il futuro, immaginavamo, in quei giorni, fosse proprio a portata di mano. sull’uscio dei nostri cuori. girato l’angolo. dirimpetto le pagine dei nostri diari. ci credevamo, un po’ come l’america, dall’altra parte del mondo.
eccola … e il “vento” nacque dall’impatto.
una lunga parabola che partì dalle cose che non sai ... puntuale e precisa piombò su tutto quell’azzurro come se fosse la nostra migliore idea. la inseguimmo, trepidanti, per tutto il tragitto, con il naso all’insù. e in silenzio ascoltammo il suo sibilo, attorcigliarsi tra le nuvole, guadagnando nell’aria tutta la velocità del mondo.
a lanciarla, dal monte, fu l’estallido, ferruccio assante: dritta, crudele. precisa. di più. il suo braccio sembrò spostare aria e mare, ma in un sol colpo, quel tiro, credetemi, avrebbe potuto spezzare le latitudini, da una parte all’altra, che legano il mondo. un sogno. il più grande. quello vero.
la cadenza era la solita. i gesti disegnavano nell’aria concentriche geometrie: mosse meccaniche e scattanti, studiate per colpire e innervosire l’avversario. perfette per la vita. impossibili da sognare. il braccio sinistro, teso come una sciabola, puntò con minaccia omicida il ricevitore. beffardamente allargò le narici e uno sprezzante ghigno si profilò attorno la sottile curva del labbro. i suoi bianchissimi ed appuntiti denti, mordendo l’aria, sembrava che volessero spezzare il giogo di un’invisibile morso d’acciaio. e quegli atteggiamenti, nonostante apparissero così profondamente detestabili, sembrava che ne accrescessero, nel campione, l’inesauribile e spietata potenza.
prima di sparare il colpo con il destro, ferruccio, finse col sinistro un flatsmoke, la mossa dei grandi campioni, studiata per disorientare i battitori. subito dopo il lancio chiuse gli occhi, forse per spingere la sfera ancora più forte con le mani dell’anima, oppure per rendere, a modo suo, un grazie a Dio.
quei lanci facevano male. erano proiettili. cattivi, dirompenti, messi in sagoma come uno di quei cazzotti che se non sei bravo ti spaccano zigomi, mandibole e mento. la gente, per l’occasione, giunse da ogni parte, lì tra i confini della contea. in quei tiri era straordinaria ed incredibile precisione, ma ancora di più se ne coglieva l’intimo significato: la forza.
quando ferruccio preparò il braccio, l’isabelita, ricordo, s’ammantò di una luce strana e dai vertici del diamante, alle gradinate sul quadrato discese come uno di quei silenzi che senti solo alla domenica, tra la parabola e l’omelia del prete. all’isabelita, nel giorno della “partita”, era tutto il mondo … il bianco nel nero e il texas negli occhi di charlie. non c’erano distinzioni. all’”isabelita” non c’era spazio per le differenze. le caste erano tanto lontane da noi quanto le nubi di orantes dalle guglie di xelosas. tutti eravamo parte di un gioco e le regole venivano scritte dalle traiettorie e dal tumulto degli impatti. io ne ero dentro. uno di quelli che abitava quel mondo per riuscire a cogliere l’immenso nella rapidità di un colpo. di uno strike. “baam!”. l’immenso. nel silenzio, tra le mani dell’anima. e quel silenzio andava così in alto nel cielo che superava tutte quelle altezze che noi, da qui, non osavamo neppure sognare. forse era lì il nostro futuro. e là nel cielo, da qualche parte, pensavamo che vi fosse quella che con prudenza taluni chiamavano libertà. e che per noi significava molto di più: era lì che sognavamo il vento dell’havana. era come se quel lancio, dal monte, lo vibrasse saxantla e xelosas e, forse, tutta quella gente che, dal guantanamo a cortez, sapeva la vita nell’odore acido delle proprie gabbie: dai neri della louisiana ai disperati del chapas.
dritto come un colosso, piantato a terra come una roccia, ferruccio, prima d’ogni colpo, amava nascondere la palla tra le mani, più del tempo necessario. dietro la schiena. la sua maglia era la numero 15. un attimo. rapido. il 15 … nulla per il mondo, tutto il mondo per noi. un istante. poi faceva come issarsi su di un pennone e, indovinando il tempo e quella solita veloce ombra di paura negli occhi dell’avversario, scaraventava “l’eternità”, dritta e filante, tra le braccia inermi dell’impotente ricevitore di turno.
“zam!”. liscio. “zam!”. liscio. “zam!” liscio. e strike!
maglia numero “15”. le latitudini che legano il mondo.
tutto avveniva molto, molto lentamente. come il prete al paese dal suo scranno, quando sibilando gesti e preghiere, profezie e vangeli, lasciava intendere ai fedeli che quelli erano i santi tragitti e una volta intrapresa la via, proprio “quelli” avrebbero permesso d’illuminare i grandi misteri della fede.
avremmo voluto gridare, ma quei lanci incantavano e le nostre parole diventavano aliti evanescenti, là a dissolversi nel cuore e nel tempo accanto. erano istanti, ma in quelli ne coglievamo l’eternità. io ero poco più che un ragazzo. ferruccio era di cinque anni più grande, ma in lui erano le promesse e il futuro di chi ci raccontava l’america.
per noi tutti, lui, la maglia numero “15”, era … l’america. e insieme il vento dell’havana.
non era un gigante.
era solo il mondo.
giunse da xitta ciupàres. e per noi, dal primo dei suoi giorni, fu lo straniero dell’est. sottile e alto, come il fusto nodoso di un giunco, nei suoi muscoli erano fuoco fuso e mordace acciaio. la sua pelle liscia e bruna era quella dei campesinos delle capoeire. e nelle sue vene, grandi come autostrade, chissà quale furia e chissà quale potenza. ma era nel suo cuore la vita e per ogni battito, la forza.
ai lanci di ferruccio estallido assante cominciò ad opporsi, dal mese di giugno del ‘77, gonzalo bernardino guijmarè, detto el cico, il leggendario battitore di xitta ciupàres.
a xelosas vi giunse nell’inverno del ’76, con l’american yellow lines. avrebbe dovuto studiare la spietata mosca rossa dei saguari. e andarsene.
prese casa dai sanchez, dietro il campanile di san cristiano. il suo arrivo fu salutato con la solita e tipica indifferenza della mia gente. non lo si vedeva spesso in giro. guijmarè amava trascorrere il proprio tempo tra i saguari intabarrati dalle cancrene delle mosche rosse. viveva grazie ad una borsa di studio del palomares istitute e ad un assegno postale che puntualmente arrivava da xitta il trenta d’ogni mese. vestiva col bianco semplice dei vaqueros e disdegnava le baldorie da “carlito’s” per onorare sant’eusebio.
ci si accorse di lui soltanto al tramonto di un venerdì di maggio, subito dopo il notiziario serale. alla sera, ricordo, tutta xelosas venne come pervasa da un suono sordo, molto simile al frastuono di un martello quando batte sull’acciaio dell’incudine. si pensò a don Miguel, il vecchio fabbro, ma non erano le sue mani e neppure la sua fame. quel cupo rimbalzo di ritmi propagava dall’estadio civil.
venerdì. giugno appena accennato. l’aria era ferma, come la vita al paese. il silenzio era ovunque, dal cemento degli spalti, ai tralicci delle quattro torri.
entrò lentamente dalla “fossa” proprio sotto la tribuna. indossava un completo nero e un paio di guanti bianchi. uno di quei cappellini yankee gli fasciava i radi capelli a spazzola. dal borsone a tracolla, sfuggiva il manico di legno di una poderosa mazza da baseball. pochi passi e fu sulla casa base. si guardò intorno come se cercasse ispirazione e rispetto. ai suoi piedi erano almeno cinquanta sfere di cuoio. nei suoi occhi erano il diamante e la diagonale con la seconda base. dal borsone sfoderò la mazza e come in una danza, vibrò il “legno” in aria, facendolo volteggiare rapidissimo su stesso. uno, due, dieci cerchi. alla fine lo alzò al cielo, puntandolo da qualche parte, là nell’infinito. bernardino lanciò la prima palla in aria, di poco sopra la testa. arretrò d’un passo. gonfiò il torace e girò il dorso dalla parte opposta, portando la mazza sulla curva linea della schiena. quando la palla fu a tiro, scattò come una molla micidiale verso l’impatto. la mazza si produsse, dritta e precisa, in un devastante fendente, e alla fine … colpì. “tuumm!!” la palla subì il colpo e volò … volò … cinquanta volte oltre i limite del cielo.
“tuumm!!”
eravamo tutti là. la mia banda era là. nascosta nel silenzio dei tucani e tra le promesse tonde della vita a xelosas. avrebbe dovuto montare sulla yellow. e andarsene.
e aspettavamo che accadesse. tutti, a turno. in fila. tra gli spalti.
guijmarè era là, ad un anno esatto da quel venerdì di maggio. nel frattempo, in quei mesi, el cico, aveva trovato il modo di fermare le mosche rosse, un posto tra i xelosas saltamontes e perfino l’amore tra gli sguardi colorati delle femmine in festa per sant’eusebio. un po’ come la vita. quando la vivi. e la trovi.
xelosas era seconda in classifica e quel giorno i nostri andavano disputando la loro ultima partita contro i carneros di saxantla, squadra capofila del campionato di seconda divisione.
era sera. e caldo. nell’umido. nelle strade erano solo i vecchi, fermi a colorare i calljion e l’impeto di una o due parole a rimbalzo sul catrame della “nacional 15”. tutto e niente, a saxantla. insieme alla vita e alla sera. nel rotondo umido del ripetersi di quelle due, tre parole. un po’ come con l’infinito.
ferruccio ci aveva traditi per i carneros. era accaduto l’anno prima. il mio vecchio amico preferì alle conturbanti indifferenze del paese, le movimentate modernità di saxantla, capitale del distretto nord. lo accompagnammo tutti, dal sindaco al sergente, alla “estacion esperanza”. era estate e l’unico a parlare, alla sera, fu l’elettrotreno: il grande locomotore per guadalajara s’inabissò tra le onde del lungo rettifilo e noi lo perdemmo dietro la prima curva, sul torrido degli ulivi e dei saguari. aldilà della prima stazione d’acqua.
girai la camaro dalla parte opposta al cancello rosso. ero in viaggio verso mia madre, da parecchie miglia ormai. varcato il confine texano, il mio vecchio mondo venne a prendermi. come sempre. per mano.
l’aria torrida, il deserto e la strada, tre elementi che per la compiacenza prossima a Dio si perdevano all’infinito, ignorando, a tratti, l’unica variabile che per quella impassibile perseveranza rendeva quel mondo perfetto: l’uomo. infilai il grande viale. piano. quasi al passo. corso buenos aires, come cent’anni fa. era la carretera americana, come fin dalle prime promesse. fiancheggiai la ringhiera del belvedere, puntando il muso della camaro contro l’aria della vertigine. giusto il tempo per una marlboro messicana. giusto il tempo per tornare a quella sera.
bernardino e ferruccio torreggiavano immobili sulle proprie postazioni. uno contro l’altro. sul monte di lancio, “estallido”, e a 18 metri, sulla casa base, el cico. due mondi in un colpo. era l’ultimo assalto. i loro muscoli addestrati al conflitto, sembravano espandersi e flettersi, comprimendo dentro mari e oceani d’aria. e di umido. uno contro l’altro. alla cerca di un dettaglio. di un’emozione, di un cedimento. l’uno negli occhi dell’altro per capire l’esitazione e, quindi, la paura.
ferruccio afferrò la palla con la destra. riempì il torace d’aria e nei suoi occhi obbligò la furia. immobile. dritto. un soldato. le mani dietro la schiena. più del tempo necessario, un po’ come l’infinito. uno scatto. chiuse gli occhi. li riaprì. prima lo sputo in terra, poi la smorfia. più che una provocazione, un rito assai maligno. tese le braccia. una danza. ginocchio sinistro in alto. torsione del torace, di mezzo giro. spallata. violenta. furiosa. in assetto. gamba sinistra a terra … e con la destra … l’inferno!
dall’altra parte, un’altra danza.
la palla schizzò come un missile. inafferrabile. inconcepibile. volò imprendibile a più di duecento chilometri all’ora, divorando il cielo. e l’aria. con il mondo che ci stava in mezzo. tentammo d’inseguirla, ma fu talmente veloce che la perdemmo nell’istante stesso in cui si manifestò in noi il desiderio d’acchiapparne almeno l’ultima parte della scia. un lampo. impercettibile. uno di quelli che ti piace immaginare come aldilà del mondo. e dentro sono solo cremisi. solo silenzio.
la diagonale perfetta.
guijmarè attese. dal suo monte. si mosse sinuosamente nell’aria e caricò la mazza. elegante. predatore. inspirò aria e forza. elegante predatore. artigliò la mazza con i pugni e il cuore. e dispose all’impatto ogni singola parte della sua anima. il ciclone era lì. a 18 metri, 15 … 10. stava per arrivare. ora. qui.
la diagonale perfetta.
“tuuuummmm!!”
sentimmo il tuono. come quando crepita sul mondo. l’eco voltò, fra tralicci e diagonali, chissà per quanti istanti. in fondo era il mondo. e rimbalzò.
“tummm, tumm, tum … “
quella eco.
dappertutto all’isabelita. fino al rosseggiare del cielo sopra il cremisi e il silenzio di saxantla.
guijmarè centrò in piena la sfera. il ciclone. e dall’impatto nacque il vento. ascoltammo in silenzio il sibilo ed inseguimmo il “vento”. la sfera superò il diamante. doppiò veloci i tralicci delle torri e alla fine volò lontano, aldilà del grande “steccato margarita”, quello che tutti noi amavamo definire “oltre il limite del cielo”: il fuoricampo perfetto.
ma quello che accadde dopo, nessuno, tra noi, seppe raccontarlo.
da quell’”oltre il limite del cielo” tornammo al diamante. al centro, tra monte e casa base, immobile, in ginocchio era guijmarè. in terra. nel silenzio dell’isabelita. ferruccio gli corse incontro. lentamente. quando gli fu a due passi, el cico scattò in piedi, come ad impedirgli d’avvicinarsi ancora. guijmarè, col capo chino, alzò le braccia e la mazza al cielo. e capimmo … si, capimmo … felici d’esserci.
la mano destra stringeva l’estremità alta della mazza e la sinistra impugnava il manico cromato. la mazza era andata distrutta: l’impatto l’aveva spezzata. istanti. nel caldo. e con noi il mondo. sul finire della sera, guijmarè lasciò cadere in terra i due monconi e allargando le braccia invitò ferruccio, l’estallido, a stringergli la mano.
soltanto allora all’isabelita scoppiò il tumulto e probabilmente, in quel preciso istante, da qualche parte, lì nel mondo, la palla toccò terra…
fu quella l’ultima partita dell’invincibile gonzalo bernardino guijmarè detto el cico.
e l’inizio di una grande leggenda.
per il ripetersi dell’infinito.
giusto il tempo per una marlboro messicana … e lentamente ripresi la strada.

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