Era uno di quei giorni. Uno di quelli per cui la storia averbbe atteso anche svariati secoli. Era il giorno perfetto e per Frankie tutta la cosa avrebbe potuto risolversi in una fottuta manciata di secondi. Gli effetti sarebbero stati così devastanti che anche il più miserevole fra i dettagli sarebbe stato tradotto in uno di quei potenti assunti e fanculo ai moralisti del cazzo, Frankie pianificò la faccenda con quella certosina precisione da sconvolgere anche il più spietato fra i più certificati degli analisti. Frankie pensò che era tempo di mettere ordine e di fottere il culo del mondo. Immaginò che fare pulizia in casa, oltre ad essere un fottuto dovere, era soprattutto uno di quei sacrosanti diritti da esercitare per rimettere a posto il già minacciato naturale e generale sistema delle cose. Non ci volle molto in termini di tempo, non occorsero che due giorni e due notti. Quando è la paura, diceva, basta la più feroce fra le consapevolezze... a disincagliare la coscienza dalle conseguenze di un abisso. Ecco perchè era perfetto: Frankie non aveva più paura. Da tempo addestrava la sua coscienza e da tempo ormai in lui cresceva quella consapevolezza che per potenza e furore era pari all'avidità degli Dei. Fra governare il fuoco e gestirne il mito, pensava, s'insinua il più emblematico e insieme il più seducente dei dubbi e nella capacità di accoglierne il segreto è la chiave di tutto.
In quei giorni Frankie si sottopose ad una serie di sforzi incredibili, tali da determinare in lui la convinzione, più che umana, di sentire su di sè il totale peso del mondo. Esecrabile fu solo la lettura di Kant, Goethe e di Hegel. Alla fine concluse d'essere così vicino alla Verità che sarebbe bastato un ultimo sforzo per illuminare quelle zone ancora in ombra per l'umanità intera. Ecco perchè quello non poteva essere che il giorno più dannatamente perfetto.
Si alzò da letto alle prime luci del giorno. avrebbe dovuto preparare la colazione e mettere in ordine il solito disastro serale in cucina, ma considerate "le imponenti evenienze" eluse gli obblighi domestici e traferì i suoi sommi convincimenti fra le penombre del grande salone. Si distinse come non mai fra le cose del buio, impedendo al più impercettibile dei rumori di venire fuori dal più nero dei guazzi e di causare quindi, involontari, ma irreparabili danni. Chiuse la porta e si diresse verso la grande vetrata. Da qui avvertì la città. A ondate. Insinuanti. Vetro, metallo e cemento: in termini di approssimazione, dentro ai suoi occhi, la puttana e sognante metropoli. Esclusi i soliti gorghi di luce, inutilmente debordanti di là del grande muro, fu quel cannoneggiare di silenzi a disegnare la vita intorno. Poi, malgrado le consuete meccaniche rinascite, fra vicoli e torrioni cobalto, il tutto, finì nella eco della più inconsistente ripetizione di un atto. E il furore tornò tiepido, come se la percezione delle cose attutisse nel compiacente riprodursi meccanico della città.
Frankie guardò fuori. Il suo sguardo fu spazio e nello spazio vibrò la sua intima e più che complessa natura. Mirò in alto verso le più pure rappresentazioni dell'essere, ma come per la strisciante paleria di sotto, di quelle ne afferrò solo i più elementari dei concetti e i meno assoluti fra i fondamentali. Tornò in sè, nell'improbabile illusione dell'essere egli stesso centro del mondo. Sorrise. E sussurrò al vetro la più incomprensibile delle emozioni. La condensa tenne solo per un rapido istante, poi la sua ibrida e fragile capacità molecolare svanì per sempre. Così come la sua immagine precariamente riflessa tra fibra e incanutiti languori di città.
Si allontanò dalla grande vetrata e lentamente fu sulla scrivania.
La sua natura sostenne compiaciuta gli ultimi slanci della colpa, ma la sua ostentata autorevolezza lasciò il passo agli impulsi più oscuri. Il suo sorriso si trasformò in uno di quei ghigni che nella savana evocano solo ira e terrore. Si, la sua natura tornò inesorabilmente complessa. Controllò l'ora. la pendola indicava un quarto alle sei. Frankie pens
Avvertì l'equilibrio del mondo nella totalità delle cose e respirò quel tanto d'aria da placare gli ultimi laconici fermenti d'umanità. A più riprese inghiottì quella rimanente miscela di ricordi per impedire alla coscienza di venirsene fuori con uno di quegli sbrindellati meccanismi del cazzo.
Era pronto. Sorrise.
Nei suoi occhi un'implacabile onda di sangue defluì con tale potenza da tagliare a pezzi anche il più solido impulso d'uomo.
Era pronto. e nella sua destra s'illuminò minacciosa una terribile lama.
Da lì a poco avrebbe dovuto compiere la sua grande opera: annientare il Concetto, annichilire l'Idea e frantumare il Pensiero.
Sola, in lontananza, e molto più distante di quanto non potesse comprendere la morte in quell'istante, era la città. Dal Quartiere al Tunnel n° 8 era solo e tremendamente nero glaciale.
E nella Torre n° 13 il primo uomo che pensava d'essere l'Androide Padre Alfa.
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Foto di Luca Lucchesi.
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