26 luglio, 2009

"avrei voluto dirle che... ", da "là, oltre i campi di sfaax", di vitobenicio zingales, ibiskos editrice.


"Ci siamo, mà." "Sono stanca, figlio mio... " "Lo so mà..." La sentivo ancora più piccola, ma era mia madre e in quel momento pensavo che fosse la cosa più grande che avessi "incontrato" al mondo. Ed era bella, ancora più bella di quelle favole che, da fanciullo, riuscivano sempre ad incantarmi. Respirava piano, come se avesse tutto il tempo per farlo. Mia madre era ad un passo dalla morte eppure quel filo pronto ad essere reciso, lo sentivo ancora forte e deciso: la morte poteva attendere un ultimo istante. Ed era l'amore, la forza interiore... la sposa saccente avrebbe dovuto attendere... Curvando il capo all'indietro, non in segno di resa, ma per l'incontenibile felicità, slegò i capelli e sciogliendo il nastrino verde, ne trasse una spilla che avvolgeva un minuscolo astuccio... Piano la adagiai sulla morbida corteccia della panchina sul lato sinistro del vecchio pontile, lì dove si ammira la vaghezza e quell'impercorribile senso d'infinito smarrimento. Le poggiai il suo antico scialle sulle gambe e con lei mirai un punto, non un punto qualsiasi, ma il punto dove sembra che le due correnti del Guantanamo s'incontrino una volta l'anno per non lasciarsi mai. E guardando quel punto incominciò a piangere e poi a sorridere e alla fine piangere ancora. Avrei voluto dirle quanto l'amavo e che non avevo da perdonarle nulla, ma nel silenzio i nostri cuori urlarono più di quanto le parole avrebbero potuto fare. Avrei voluto dirle che, per me, Usè fu più du padre e che quell'amore che li legò così indissolubilmente, io, sebbene l'abbia cercato tutta una vita, non l'ho ancora trovato. Avrei voluto piangere con lei, ma mia madre in quel momento era l'istante e la sorte. E della solitudine del lago, lei, ne era il tempo assoluto. Girai gli occhi a Nord, verso la casina dei cacciatori, sulla sponda opposta, nascosta dalle fronde degli eucalipti e arroccata sui pendii deboli e freatici della palude. La banda lì non andava mai; quell'improvvisa e solitaria casina la costruì Usè... e adesso, soltanto ora, ne intuivo il perchè. Era così bella e forte sulle pietre che quella casina, Usè, dovette costruirla per un degno amore, per mia madre. Il mio viaggio incominciava dalla prima visione che un uomo spera nella propria vita d'incontare almeno una volta: l'amore. Avrei voluto essere dentro ai pensieri di mia madre in quel momento e coltivarne almeno la speranza, ma riconoscevo a me stesso improbabili capacità: la portavo a morire. Le chiesi se aveva paura. Mi rispose che era pronta ad accogliere la morte e dolcemente mi sorrise. Io mi sentivo piccolo... troppo piccolo e troppo umano per comprendere tutto quel bene, eppure, guardando quel lago e mia madre, incominciai a chiedermi da dove veniva il male e perchè il mondo ne permetteva l'arido ed inutile compiersi. Non ottenni alcuna risposta, ma illuminandomi nel sorriso di mia madre, rammentai il mio primo viaggio in treno verso il mondo, quel mondo perfetto sognato spesso tra le pagine del mio coloratissimo atlante e più d'ogni cosa mi vennero in mente Usè alla stazione e quelle sue incomprensibili parole che allora non riuscii a catturare. Chissà quale mistero avrebbero dovuto svelarmi... mia madre stava morendo e con la morte, quelle parole sarebbero andate perdute per sempre. Avrei voluto sapere, ma quell'equilbrio perfetto, mi spinse a non domandarle più nulla e quel mistero andò via nella sottile avvenenza di una sposa che si preparava ad indossare l'organza più bella... Mi feci da parte e lasciai che il vento e la brezza facessero il resto. Tornai a riva e la guardai da lontano, dalla darsena. Non l'abbandonai perchè fu lei ad implorarmi. Voleva restare sola col suo lago e con il suo amato Usè. Era immobile e fissava quel punto senza scomporsi. Sembrava una dolce ombra su quell'imbiondarsi di scintille tra luccichii azzurri ed imprendibili evanescenze. Non so quanto tempo attraversò quei momenti, ma quando tornai al pontile, mia madre aveva gli occhi chiusi ed era bella, più bella di quanto la morte avrebbe potuto immaginare. Piangendo guardai il cielo e ne distinsi l'invisibile rotta che portò me ed Usè tra le nuvole che corrono da Xelosas a Mazatlan, là in mezzo ai campi di Sfaax.
foto di irma vecchio

2 commenti:

  1. Di te ancora non conoscevo le dolcezze di questa tua quiete scrittura...E mi hai colpito ancora una volta. Ma per favore abbandona ogni consolante paragone tra te e la dolce partenza di quella mamma. Grazie

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  2. october cara,
    "sfaax", è un on the road fantastico, snoda le sue parole su quel immaginifico scenario che è il messico delle rivoluzioni. qui insieme alla strada sono protagonisti mik isizureta e sua madre morente. a dividerli le distanze e molti anni di silenzi. tutto gira intorno a quelle parole... quelle che mik non ha mai detto, quelle che adesso vorrebbe gridare al cuore della propria madre lontana, quelle che un padre e una madre, nonostante la vicina "eterna trasferta", sanno. da sempre... sebbene le distanze e il fragore dei silenzi. le parole che avrebbe voluto dire, sono le parole che una madre con un figlio e un padre con una figlia, che non possegono voce. e le sanno in silenzio. e le sanno fra gli inverni e le maree del tempo. come un infinito panorama che distende aldilà dei più mirabolanti sospiri del tempo. l'amore di un padre. l'amore di una madre. sfaax... una nuova itaca da amare e su cui saper tornare in silenzio e senza rimpianti.

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