20 luglio, 2009

puttane, mafia e cemento. da "palla di grasso", di vitobenicio zingales


amici cari. ieri sull'asfalto di via d'amelio. era caldo. troppo caldo. nella città era la canicola di luglio. su quel bitume macchiato ancora di rossosangueluce avrebbe dovuto esserci tanta palermo. erano invece toto borsellino e, credetemi, nuove mille città. la città del caldo era lontana. più di quanto possano immaginare l'indifferenza consolante e l'oblio salvante. domani è il 21 di luglio. boris giuliano. sbirro. uomo. che col caldo ci faceva i conti. morto crepato per la fede nell'uomo. nella divisa e nello stato. a palermo anche domani sarà caldo.
"A quanto sei?" "Trenta!" "In bocca?" "E quaranta di culo" Contaminazioni essenziali. prive di variazioni logiche. sulle strade della mia città assicurano all'impatto il senso e la dimensione della forza. come assoluzioni previe, là a non lesinare convincimenti morali per tutte quelle genti a cui serve anche la mistificazione più lieve per vivere nella finzione più grande. puttane. negre soprattutto. per attribuire allo sporco la seppur minima condizione salvante fra le miserie dell'anima. troppo incolmabili penombre ancora distendono fra la via S5 e piazza michelangelo calona. su quel tratto di strada fui maschio per la prima volta. presi la mia puttana. infilando nella sua bocca tutta la forza della mia anima. e la bellezza. a sedici anni. fra le solitudini meno lampeggianti e le mischie più insolventi di quel tempo. forse le perennità verso cui la storia facilitava gli inneschi più brutali e meno ingombranti. ed era un passaggio. più di un salto: la somma delle scelte. un modesto equipaggiamento consentiva d'infilare il dramma dei sentieri più oscuri. un addestramento minimo assicurava il successo più imprevedibile. insperato. ma il trionfo più grande era pari al più monumentale dei fallimenti. come se inferno e paradiso fossero schemi speculari del più perfetto paradosso algelbrico. privo di incognite manifeste e ricolmo di premesse verso cui poter adattare e tendere le più comode fra le soluzioni. e in mezzo era il nostro seme. e il fluttuante desiderio di lasciarsi afferrare dalla più consolante fra le incapacità. le puttane erano questo. le già improbabili alchimie della città innervavano sull'intrigato sistema dei sintomi: l'eludere accresceva il disagio, foraggiando quella che dopo pochi anni sarebbe stata la capitale della rasseganzione. "el aziz, fra tralicci e souk, aceto, merda e savana". non erano le ideologie a muovere le masse. e non erano neppure i grandi ed abili schermitori americani. nella mia città, dopo il cemento, erano le puttane. la mafia, verso entrambi, ne suggeriva il segreto dei sollazzi. e quantunque ci si sforzasse di credere nella speranza, la quintessenziale forma della forza, si preferiva, alla fine, adattarsi al combinato più splendido fra le leggi: l'avidità e l'indifferenza. nonostante l'eco di una certa coscienza si moltiplicavano gli sforzi perchè venisse assicurata a tale norma quella potenza che, talvolta, oggi come allora, sovrasta finanche la sovranità di un popolo. e se col cemento si consolidavano le scelleratezze dei legami, con le puttane si dava corpo all'edificio del futuro. se giungeva scabroso o proditorio poco importava se l'effetto era il maneggiare un profitto od un possesso illimitato e rigenerabile. la mafia ne traeva quel vantaggio e tanto da concedersi, in poco tempo, il governo e l'amministrazione di quella fortunata e sbalorditiva legge. aldilà del Cristo, quindi erano gli impulsi del sovrano tempio parlamentare che assicuravano, a quei taluni, onori, lodi ed inalterabili privilegi. oggi a distanza di tempo nulla pare essere mutato. la medesima penombra giace sul risvolto delle strade. cemento e puttane passeggiano fra le intermittenze dei palazzi. quell'antica legge è ancora amministrata dalla mafia e all'avidità e all'indifferenza pare si mescoli la più frustrante tra le ipocrisie. questa si... sapienza. "A quanto sei?" "Trenta!" "Di bocca?" "E quaranta di culo!" anch'io tra le penombre. la mia pelle non è mutata. nel cuore ho il vecchio seme, ma anche nuove aridità. la menzogna serve altre cause: ho moglie e figli e di quella legge ne riclassifico i dettami a mio vantaggio. l'avidità e l'indifferenza appaiono più simili al ridondare della mia coscienza che all'ipocrita cambiamento di quei tanti che conosco. la mia città. puttane e cemento. sangue, onore e favori. e morti crepati di trentotto e tritolo. e la mia fede, acqua sporca di sotto a quella che era candida neve.

vitobenicio zingales


foto di andrea de luca

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