17 giugno, 2011

pz.n.132 (di un vetro sopra dio) di vitobenicio zingales



di un vetro sopra dio.

amico mio, qui continua il ripetersi del tutto, come cadendo a piombo da un terrazzo senza cielo. le cose, qui dalla mia finestra, e tra quelle mediocri distanze che sai, appaiono ormai senza pelle. irrigate soltanto dall’ombra dell’immaginazione, cieche e prive d’ogni turbamento che potrebbe il sangue, qualora di questa vita ne avesse memoria. racconto ai miei ricordi la fame della vela quando mi ostinavo a scorrere il congiungersi della tempesta col vino della vita, in quell’anfiteatro sentimentale che era l’esperienza. lo racconto ai miei occhi aperti e ai panni stesi sull’involontario atrio del mio essere. di sotto, tra gli incerti orgasmi dei pilastri in cortile, osservo quel “perdersi in tempo” che a noi piaceva afferrare quando la vita non bastava. adesso è dei colombi la partitura e nonostante l’afa, questi piccoli roditori con le ali, fanno il perimetro, da una parte all’altra, evitando, ruffiani e diligenti, il peggiore tra i ricordi: il volo. qualsiasi cosa e in qualsiasi ora del giorno, spazzando tutto ciò che, in briciola e per mozziconi a stenti, gli viene dal “dio dell’alto”, pare s’accontentino … un po’ come il mio viaggio fermo: avido sulla liturgia delle soste.

dalla mia finestra lascio che gli occhi disimparino il vento e quelle simili faccende a cui sono legati l’eco del compiangersi e l’arte del far di schiena.

il mio mare è a pezzi. non ha più vele da sorreggere, né ciurme da confondere. l’ultima isola, alla sabbia calda dei rimedi, ha preferito il sottrarre della ruggine, risolvendo con la terraferma uno di quei patti che solo il vecchio osa con la morte. il mio mare è a pezzi, non ha l’immenso in questa stanza e la sua acqua, tra paralisi di miraggi, torna calma ai fondali del rassegnarsi. l’incerto delle squame non è per l’umido della mano, ma per l’urlo dell’acqua quando all’amo resta l’infinito di una goccia. ed è così per quei taluni che io vedo lì, di sotto: stanchi e col sudore nell’anima prima ancora d’aver raccolto dalla promessa il sangue dell’infrangersi.

dov’è l’ithaca degli impossibili timoni? dove impenna l’albero degli imperituri dubbi? in quale stiva varieggia l’orizzonte degli errori? e quale organza possiede la mia circe liberata? la cruna delle idee è troppo stretta, perché il cielo del rischio possa inventarsi l’ulteriore e l’altrove del domani. ho stabilito, concedendo agli occhi l’ipotesi di una sponda, che sono l’”ieri” e l’”altroieri” a dirmi la speranza della rotta, ma se l’”oggi” continuerà ad ordire tiepide trame, l’ipotesi si trasformerà in quel teorema che temevamo: l’apocalisse della noia, il naufragio. a quel tempo, il timore, era così lontano da credere vivente il nostro dio campione e così la sua giostra di compagni in maglia e calzettoni. bastava una “supersantos” a compiacere gli dei e se il trionfo giungeva da un tiro in porta, il mondo esultava non per la bellezza che stupiva, ma per la bellezza che là stupita chiedeva ancora cibo per i suoi occhi.

amico mio, dalla finestra subisco il filare dei platani e il suono a sprazzi della peggiore aritmetica sentimentale: restano fermi, gli uni e gli altri, dentro l’immobile morale di questo incorruttibile e sconveniente palco. e non c’è niente da fare: è nella natura delle cose, come in quei colombi di sotto. nell’odierno bipede pensante risulta tanto essenziale quanto fondamentale, l’apparenza della misura: dai muscoli generanti al generare tendini impotenti. il furore del nulla giunge dal dio più imberbe e si fa radiante nel cuore del più risoluto dei buffoni. qui, di sotto, tra attori ed architetti, saltimbanchi e avvocati ne ho visti … e parecchi.

Hai ragione, mi dirai, ma come sostenere il concetto dell’essere, se la vita odierna non possiede il motivo di un’idea?

è il delinquere dell’anima che manca, amico mio … è il crimine dello spirito che è sommerso, lì di sotto, in quel mucchio di carni fatte cadaveri per il ragionare delle statistiche. se l’inverno non ha dure cartilagini per sostenere l’incoerenza del ghiaccio, le estati brillano per la finzione di un fascio che non è del sole .

ma parlami, dimmi ancora di quel riflesso che innesca l’aria quando a cerchi i ricordi fanno lampade alla strada. dimmi se è ancora quella lama a farti il sangue nella sabbia dell’anima. parlami amico mio … dimmi se la fame della vela fa echi di miraggio sul rancore del tuo palmo e se l’ithaca che desideravi tra le dita possiede ancora l’organza della rotta dimenticata.

io, nella richiesta dell’attesa, che è il mio viaggio fermo, da questo vetro senza pelle, e nel semplice delle cose, aspetto non che qualcosa accada, ma che la vita sia già accaduta.



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