D'oltre siciliano
Non c'era tempo e lì, l'andare di posto in posto, disegnava fermo e distante. Erano cose imparate a sentimento, quasi un elogio all'indifferenza e per educato rispetto. Di quei delitti al tatto, noi che picciotti lo eravamo per sudore di nascita, ne legavamo a memoria, non tanto il crimine, ma l'abitudine al destino. Ci soverchiava il tributo alla pazienza ... quel cerchio imbattuto di rinascite che "ricominciava" la frontiera da un cielo all'altro del paese. Alcuni, con pedante insofferenza, la chiamavano arroganza, altri la sublimavano per assenza di quel sanguigno divagare anarchico. Sfrontati com'eravamo, ritenevamo "l'obbligo al silenzio" l'unico che potesse cambiare le residenze al tragitto della consuetudine ... il resto dilatava supponente verso quella ostentata vaghezza che i preti o i carabinieri promettevano per esagerare la modernità. Ci bastava il mare, quel ripetersi alludente simile soltanto al morso delle farfalle. I nostri interessi, finita scuola, non comprendevano l'ignoto: sarebbe bastato attraversare la ferrovia se solo avessimo voluto afferrare le intenzioni di un qualche forestiero dio. Ma come per il pane schietto, su un filo d'olio e di sale, l'esperienza che adescava la nostra ammirazione era tutta là: nella santità di quell'incauto tribunale dello stupore. C'impastavamo ai formicai meno solerti, alle omertose resistenze delle querce e semmai avessimo incontrato trame diverse da quel commercio lento, avremmo inventato un ragionare perfino ai teoremi dell'accidia. La cento lire, per la corriera, e un arsenale di cerbottane, ci permettevano di attraversare quel regno di caligne illusioni. Quel posto, nato da chissà quale scempio orgiastico, elevava l'estetica del nulla a plausibile sostanza, e talmente tanto che solo all'infanzia veniva concessa l'allusione alla redenzione. L'oltre era solo un posto liquido e poco necessario. Talvolta erano i serpi a gusciare dall'onice, poi il niente tornava al caos e al senso immotivato dell'adesso. La brezza faceva miraggi irrisolti, misurandosi tra il tentativo dei pali e l'errore d'immaginare, tra vanità d'altura, promesse di distanze.
Alla stazione, il quadrante a parete, fermo, ma con decenza, faceva la solita terragna illusione e tutto, a sorsi lenti, finiva col pareggiare il chiacchiericcio della fame ...
Altrove, con quelle, non c'erano somiglianze d'estati e li' a scannare non era il rimpianto, ma il silenzio: fermo, siciliano. Niente d'infinito: la caloria, semplicemente, spalancando al caos, s' attribuiva, con i gechi, il primato sull'Onnipotente.
Tutto, compreso quel pressapoco al futuro, arroccava sul pietrame e gli imbecilli, più degli avidi, con un colpo di promessa a serramanico, di quel fare lento, speravano di spezzare il colera sentimentale. Le loro eccedenze, tra le contrade, li facevano ciclopi e se le loro minchionerie erano tali per potenza a quelle dei signori del continente, gli imbecilli finivano con l'essere i migliori tra i più potenti dei.
Ricominciava così agosto, con le cose che raccontavano lento, e noi, con quel giudizio imparato dal veleno degli oleandri, riprendevamo a volare. Dalla ferrovia agli "sbalanchi" correvano solo due passi, in salita, e con l'intendere del tufo di fianco. C'era tutto in quel salire: la vigoria alla furbizia, l'abbandono al sacrificio, l'esercizio all'attesa. Il passaggio, come quel frazionare tempo, era all'arranco, da parte a parte, e se al mondo ci pigliava di capire, noi imbastivamo l'intimo delle inclinazioni verso il sollecitare di quel salmastro così assoluto. Dispari era solo il caldo. C'importava solo che il posto restasse intatto alle atrocità di quelle estranee voglie pendolari.
Lentamente, sul tentare di quegli irrimediabili slanci, tutto faceva posto agli occhi delle cose e li', dal nostro caos fermo, permettevano solo agli angeli di subire l'azzardo alla perfezione.
Vbz
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