23 ottobre, 2014

Trilogia del ferro, di vitobenicio Zingales

Trilogia del ferro

il giorno perfetto, "alla fine, aprimi e divorami". Prima parte. 

era uno di quei giorni. uno di quelli per cui ne vale sempre la pena, eccome. era uno di quei giorni che comunque ti scoppi il cuore, c’è d’andarci fieri. a detta di frankie quello era il giorno perfetto. e in qualunque modo l’avesse presa il mondo, quel giorno, per lui, sarebbe risultato tanto importante quanto il giorno del primo uomo sul culo della luna. avrebbe potuto scommetterci intendimenti e attributi, ma quel giorno era il più azzeccato e fottuto fra i giorni del suo calendario avariato. non fu facile stabilire quale tra i pretesti avrebbe potuto essere il migliore, ma probabilmente “quello” ne suggerì la “circostanza”. se fosse stato il caso, o altre simili cazzate, a torcere il cavillo, risultò assai irrilevante, considerato che nel costruire la fortuna dei suoi effetti i peggiori detrattori sono i migliori fra gli uomini comuni … e la storia, si sa, evoca solo eroi, santi e luride puttane. credetemi: al di là di quanto potranno le parole, su questo pezzo di carta, risulterà non facile, alla fine, elevare uno di quei giudizi tanto severi quanto ragionevolmente opinabili e non solo per tentare di dare corso alla più strampalata o sommaria delle disquisizioni etiche. se volessimo indagare più a fondo l'esecrabile scelta, dalla parte opposta alla più conveniente delle convinzioni morali, risulterebbe alquanto sconfortante pensare d’essere stati oggetto del più singolare strumento del sapere: il dubbio di dio.

era uno di quei giorni. col caldo e il vilipendio solito:  le ennesime ricostruzioni culturali promuovevano vantaggiose istanze etiche e quanto mai liberatori dileggi intellettuali. uno di quelli per cui la storia avrebbe atteso anni, secoli addirittura. era il giorno perfetto e per frankie tutta la cosa avrebbe potuto risolversi in una fottuta manciata di secondi: sai una di quelle risolutorie scopate per levarti all’istante dall'imbarazzo chimico? gli effetti sarebbero stati così devastanti che anche il più miserevole fra i dettagli sarebbe stato tradotto in uno di quei potenti assunti, tra archetipi e falli e, per dio, frankie pianificò la faccenda con quella certosina precisione da confondere anche il più attento fra i più certificati e gettonati analisti in fatto criminale. frankie pensò che era tempo di mettere ordine e di fottere lo sporco culo del mondo. immaginò che fare pulizia in casa, oltre ad essere un dovere morale, era uno di quei sacrosanti diritti da esercitare per rimettere a posto il già minacciato naturale e generale sistema delle cose. disimparò ogni elemento discordante con la neonata indole e, soprattutto, si collocò oltre lo spettro della colpa. e del ricordo.

non ci volle molto in termini di tempo, non occorsero che due giorni e due notti. "quando è la paura", diceva, "basta la più feroce fra le consapevolezze a disincagliare la coscienza dalle conseguenze di un abisso". ecco perchè era perfetto: frankie aveva smesso di assecondare la paura  e deciso di avocarsi il "potere della pertinenza". da tempo andava addestrando la sua coscienza, spalancandone la libidine, e da tempo, ormai, cresceva in lui quell'ardita consapevolezza che, per potenza e furore, sarebbe risultata pari solo all’avidità di quel dio pateticamente osannato. semplicemente riconsiderò i termini di un contratto, immaginando di ristabilire la giustezza del peso tra l’eludere e l’effetto. "fra governare il fuoco e gestirne il mito", pensava, "s’insinua il più emblematico e seducente dei dubbi: disimparare dio o divorarne gli ultimi resti?"

in quei giorni frankie sottopose le sue convinzioni alla più rigida fra le revisioni e se esecrabile fu la lettura di alcuni testi minacciosamente occulti, dal quinto vangelo all’essenza dei colori, al molteplice di fibonacci, esemplare fu la sua scelta: negare a dio l’eccellenza di un evento.

si alzò da letto alle prime luci dell’alba. di sotto era il consueto ristabilire di periferia, col perseverare dei soliti disimpegni civili. le palerie s’informavano ai progressivi imbarbarimenti estetici, tra cemento contenitivo e sbalorditive procedure contabili. avrebbe dovuto mettere in ordine il solito bordello, ma considerate le imponenti evenienze, eluse gli obblighi domestici e trasferì i suoi sommi convincimenti fra le penombre del grande salone. si distinse come non mai tra i ricordi ficcati nel buio, impedendo l’emergere dal nero evocativo, soprattutto al più impercettibile dei rumori sentimentali e di causare quindi, involontari, ma irreparabili danni. chiuse la porta e decise per il panorama immobile dal vetro. da qui avvertì la città, a ondate ... modestamente allegoriche, ma tiepidamente insinuanti. vetro, cemento e sbirri: "in termini di approssimazione", avrebbe sostenuto, "dio e quella falsa enfasi creativa". escluso il torpore della luce, inutilmente debordante di là del vetro tra gli scuri, fu quel cannoneggiare di silenzi a disegnare ancora focolai di vita intorno. alla fine, malgrado il coinvolgersi ennesimo di quei tentativi riparatori, fra vicoli ed intermittenze, il tutto apparve finire nella rappresentazione della più inconsistente ripetizione di un atto. e il furore tornò tiepido, come se la percezione delle cose attutisse nel compiacente riprodursi meccanico della città.

frankie guardò attentamente le cose di sotto e il sistema che là, potentemente, attribuiva al vuoto il criterio del risalire.

nei suoi occhi irretiva uno spazio sconosciuto e in questo rifletteva la sua intima e più che complessa natura. mirò in alto. di più, nonostante l’ingombro di quella supponente immanenza. si allontanò talmente tanto dalle sue originarie aspirazioni da osare le più pure rappresentazioni dell’essere, ma come per la strisciante paleria di sotto, di quelle ne afferrò solo i più elementari concetti e i meno assoluti tra i fondamentali. pianse. spalancandosi nella rabbia. istanti. si respirò nel sangue e tornò alle sue convinzioni: "sono il centro del mondo: adesso è necessario perfezionare l’intenzione". tornò all'intendere originario e da quello al convincimento liberatorio. si allontanò dal vetro e lentamente prese il legno della sua scrivania, là a due passi. la sua natura sostenne compiaciuta gli ultimi slanci della colpa e la sua ostentata autorevolezza condivise il passo con gli impulsi più oscuri.

la millantata eternità cedeva il passo alla ferocia meno attutita, ma più organicamente dislocata tra cielo e terra.

il sorriso si trasformò in uno di quei ghigni che nella savana sanno evocare solo ira e terrore. controllò l’ora. la pendola indicava un quarto alle sei. frankie pensò d’essere pronto. da lì a poco avrebbe attribuito all’onnipotente la più miseranda tra le colpe.

di là, nel silenzio, tra andito e piccola biblioteca, era la sua famiglia.

avvertì le sconcezze del mondo nella totalità delle cose là giacenti in basso e respirò quel tanto d’aria da placare gli ultimi laconici fermenti di pietà. a più riprese inghiottì quella rimanente miscela di ricordi per impedire alla coscienza di venirsene fuori, nel momento meno opportuno, con uno di quegli sbrindellati meccanismi del cazzo.

nei suoi occhi un’implacabile onda rossa defluì con tale potenza da inibire anche il più involontario tra gli impulsi. era pronto. con la mano sinistra impugnò una striker a moto circolare e simultaneamente, nella sua destra apparve un minaccioso e quanto mai giudicante coltello.

da lì a poco avrebbe dovuto compiere la sua grande opera: "spalancami il sangue. chiedimi se, per ogni dente, l'acciaio della striker chiede all'eludere il valore della colpa. alla fine, aprimi, insegnami a disimparare dio. e divorami".

soli, in lontananza, e molto più distanti di quanto non potessero intuire dio e la morte, in quell’istante, erano la città e quel cannibale intendimento.

"le farà piacere, io l'amo".


Il giorno perfetto, ti amo. Seconda parte.


intimamente, verso il mare, a galleggiare controspigolo. solo chiacchiere e diagonali bestemmie. vecchi silos, da una parte: schiacciavento, per la gente che abita le abitudini del porto.
la città.
e gli “oboe” delle grandi navi da crociera.
ma l’inganno era evidente anche al più orbo tra gli imbecilli.
la città.

a ricalco sulla nebbia, a rincoglionire l’alba, era il tanfo del cherosene. tutto giaceva intorno alle chiappe del mare e l’imponenza di dio giungeva, a tratti, dagli acuminati coltelli di cielo che lì, sulla schifosa rada, esaurivano come ciliegie di merda a piombo. su per la deriva delle alghe, ad uno sputo dall’arrossire dei marabutti, tra i docks, moltiplicavano, invece, i consueti trambusti delle blatte, anche loro lì a fottersi la vita, per una “spada” da bere o per una lisca da ripulire in santa pace. alla fine, che fosse il rimpianto dei vecchi gruisti a sbuffare il grigiume, intorno alle solite menate sindacali, era evidente più di quanto non fossero palesi le zaffate di sperma sul torbido delle coppiette che labbravano il litorale.
dal porto alla promenade, era quel dovere di superbi particolari: il carcere. sul tratto, le losanghe robuste e i porfirici cartelloni pubblicitari suggerivano la colpa e la commiserazione: la faccia di un "fromboliere idiota" da una parte e il braccio n. 5 dall’altra. il "cavaliere" e i vinti: la vendetta e la redenzione. ma l’intendimento dei creativi, a quel tempo, sarà stato proprio quello: determinare l’effetto al di là di quel qualsiasi principio estetico. oltre le prospettive immorali, torcenti le squallide piazzole, erano le consuete sfinteriche abbondanze, riprovevoli più della mente che, di tutto quel ben di dio, ne aveva elaborato il raffinato meccanismo.

dalla torre era tutto questo, escluso l'inferno.
sbirri, preti e puttane la sapevano bene quella parte di città.

semper avarus eget.

il primo fendente sbranò il baricentro del cuore. in volgari frantumi. tutto, tra condotti e ventricoli. placenta e peccati, regolati tutti in fondo al sapore del cuore. crudele, spietato, giudicante coltello. affondò sagittale nella religione della carne, con quella violenza che è pari solo alla più agghiacciante e predatoria voglia d'amare. letale, evangelica arte. quasi bellezza. l’infinito apparve al primo getto. e fra porpora e fango, delineò in alto la conseguenza di un abisso. come quando è un sogno a radere gli esagitati pruriti del tetto. al primo inesauribile schizzo di sangue, quel sogno laccò l’intonaco. turpe e muscoloso. una gotica istantanea, oltre la morte. osceno. incapace d’amore. una visione perdutamente pornografica. un vezzo da oligarca, al di là dell’irrimediabile presente in catene. una soggettiva lenta, disegnata in macchina per supporre l’aristocrazia di un alito. l’inferno beato tra gli angeli e il mistico colera in paradiso, al di là dell’opinabile eterno. un primissimo piano e poi stacco. in nero. e il dolore in dissolvenza.
nel buio, la scena recriminò solo quel tanto di rispettabile ferocia.
il suono fu tra i più particolari. in natura non ne esistono di simili. neppure a volere rammentare l’avidità degli sciacalli.
il secondo fendente andò in vena, nella vagina dell'origine. da sinistra a destra, aprendo la gola. un solo taglio tra ossi e trachea. mozzando lasciti e promesse tra libido e rimasugli di coscienza. rendendo il suo peso superiore soltanto alla capacità della misericordia. un solo atto. ninfomanico. sbrigativo. colto. un’amputazione perfetta fin dentro l'archeologia del dolore. non fu più donna. nonostante le lacrime, il sangue fu sperma. a getti, fra tumulti di bestiale intelligenza.

pam, pam, pam, pam.

sette fendenti. tutti in gola. l'eccellenza dello stupro. con premeditata compiacenza. tutti dentro. con amorevole cura. coito perfetto.

quando il coltello è un vero maschio.

un ultimo sussulto. un ultimo rigurgito. e la morte, apprezzandone il vigore, esplose in tutta la sua adorna freschezza.

la morte non fa male ...

il cuore, magistralmente saccheggiato, cessò di erogare sentimenti e battiti. e con quella tipica disinvoltura che è del più elegante tra gli assertori la disfatta chimica dell'anima. il muscolo, inopinatamente, concesse un ultimo lampo e l’atto sistolico fu tra gli occhi della soluzione meno impegnativa.

perché?

solitamente, alla fine, “tutto”passa da quell’indeclinabile senso di stupore … come se in vita, colui che va, mai avesse avuto il tempo di raccogliere, e da qualsivoglia domestica stronzata, un seppur minimo indizio e spiegare, quindi, le ragioni di un epilogo. un olocausto spietatamente banale

perché, amore mio? perché ….

iconoclastico dolore. tardi. e ricadde di spalle, con le pupille sbavanti ancora l'impegno alla pietà. elettricità e spasmi, ancora per poco, appiccicati, alla sconsiderata avidità della pelle. semper avarus eget.

fu calmo. misurato. come l'estasi liturgica a quell’ora. non pretese altro che non fosse necessario: la logica, l'estetica ... e il dubbio di dio.
ripiegò verso le parti nord di casa. la furia, da li a poco, avrebbe avuto altri denti da accontentare. il tempo d’assaggiarsi e di stupirsi, e frankie, piano, entrò nella camera di marco e matteo ... quattro e sei anni, dalla lieve punta dei piedi allo sbaffo di cioccolata sulla fragile ceramica delle labbra. inesauribile omeostasi di figli. 

l’innocenza e la colpa, condivise ai vincoli dell'incertezza più provvida, accolsero la stupefacente esaltazione a quel tipo onirico di  bellezza.

poco meno di 15 metri quadrati, e qui l’atto venne ripetuto. a ciclostile. in perfetta, celebrativa sequenza. la coerenza dell'atto e il crudele intendere della fame. nessun altro dio, al di là dell’uomo, tra concupiscenza e inclinazione al bisogno cannibale di costringersi alla vita. due fendenti al primo dei fratelli, cinque colpi a matteo. al petto e alla gola d’entrambi. conquassando la loro inammissibile verginità.
alle sei punto dieci, frankie tornò dalla moglie. al di là d’ogni ragionevole dubbio … un marito esemplare.
occorsero solo venti minuti.
il moto circolare della striker fu avido, ma tecnicamente preciso. prima gli arti inferiori, alla fine il torso e la testa. la fece a tocchi e a pezzi la ficcò dentro ad uno di quei grandi sacchi neri. la sentenza fu omologata e alla parte venne retribuito la giustezza della pena.
finito d’adorare la moglie, tornò alle parti nord di casa … insieme alla striker. qui ebbe cura di cambiare il disco d’acciaio, con uno nuovo da quarantaquattro denti … meno aggressivo, ma altrettanto famelico e affamato.
occorsero solo quindici minuti.
al palato della furia.
per tutto il tempo, le "terze parallele" del k623 di "wolfgang", il prediletto.
di sotto era la solita paleria dribblante, tra contenitori e guerre di ratti. in mezzo, la moltiplicante semenza di citofoni e di inutili sensi rotatori. dalla torre, il porto e il tratto di strada, tra l’estetica delle encicliche aggettanti e i principi morali delle blatte.

perchè? 
 
un solo minuto alle sette ... per dirle ancora ... "ti amo".

Il giorno perfetto,  ti salvo. Terza parte.

quando "l'opera" fu compiuta, Frankie decise per la savonarola in sala. prese un sigaro e lentamente attese la combustione.

dai vetri, la città segnava le encicliche consuete. invariabili, come gli orizzonti morali, lì appesi al cielo, e tanto distanti, quanto irrimediabilmente inavvicinabili. tutto sembrava sottomesso. spregiudicati errori, richiamanti il miserabile declino, colmavano la diffusa indifferenza e il generale oblio: dagli attraversamenti estetici ai debiti dell'assenza. in periferia, le evidenze del sottrarre mostravano le logiche e le perversioni di quel doloso e più che indegno calcolo politico. ma l'esercizio all'abitudine concimava l'irreversibile e la raffinatezza del potere era tutto in quel generativo e paralizzante coma. la chimica del nulla sovrastava la fisica dei desideri, maneggiando col bisturi la cancrena e la metastasi: le concorrenti manifestazioni di quel produrre "democrazia".

il salmastro procedeva a tratti, rotto, di tanto in tanto, dal rimestio dei commerci dei naviganti. non è che gliene importasse più di tanto, ma quel configgere di rumori di sotto, nell'aprirsi del giorno, lo irritava. 

"che stronzi ... darsi pena per uno sfacelo che loro stessi hanno inventato. dovrebbero scannarli tutti, ecco cosa ... "

faceva fatica a mostrarsi indifferente, ma quel battere anarchico di genti e improbabili, quanto illeciti contratti, gli impediva di formulare il più elementare dei concetti. provò un confinato senso di solitudine, ma di quel cibo non intese la benché minima necessità. decise, quindi, di lasciare quel risibile sconforto per le oscenità, più che probanti, spalancate e officianti l'orrore più tenacemente rappresentato. quando fu in camera da letto, in quella preistoria di liturgiche combinazioni, ebbe la sensazione di rivivere la desolante ferita patita al tempo di quella adolescente iniziazione, ma seppe come retribuire il danno tra le parti in conflitto. così, ritenendo di governare il mito, come il più solerte dei custodi la colpa, prese la sua parte di letto e immaginò di essere insieme salvezza e redenzione. 

"mia cara", cominciò piano, come uno di quei lenti abbrivi dovuti più per inerzia che per meccanico clamore, "ti starai chiedendo ancora da dove sia giunto il male e perché tu ne sia qui l'oggetto. non ti biasimo per l'ovvietà con cui tenti di dissimulare, ma non avresti goduto di alcun privilegio semmai non ti avessi concesso la salvezza. lo sai, e bene, con quanto vigore hai sollecitato la liberazione e con quanto ardore hai desiderato la via al pentimento. adesso intendi?"

si fermò, ma non le levò lo sguardo dai suoi occhi, anzi lo moltiplicò dentro con quel lieve accanimento. misurò la furia, tolse il torso dal sacco e le assediò il petto col proprio abbraccio.

"hai sempre ritenuto dio meno del nostro credo e che la consapevolezza derivasse dal compiersi perfetto di quella rara bellezza ... avevi ragione ... e rendo merito alla tua arguzia. avresti mai immaginato che tutto potesse risolversi in modo così solenne? marco e matteo sono la nostra ricompensa, la conseguenza del nostro impegno ... la valuta d'oro, come amavi definirli. adesso, anche loro "elevano" e qualificano lo sforzo. l'esegesi, mia cara ... si quel concetto che si fa carne per la remissione dei peccati. tutto, adesso, è compiuto: il dubbio di dio è tolto ... noi possediamo la reminiscenza. la nostra opera ha superato l'intenzione e quella miserabile supponenza che dio soleva mostrare in casa nostra non avrà il merito di una seppur lieve eco."

decise un intervallo e con dolcezza, riannodando il sacco ... 

"non c'e' passione, amore mio. tutto, ormai, è orrore senza ritegno tra rumori contabili e slanci addomesticati. ecco, finalmente hai inteso. ti amo più di prima."

la periferia ricominciava a prostituire la solita alchimia di avanzi. di sotto, l'anatomia del niente concordava i ricalcoli di quel "bisturi operante" e la democrazia, fatta salva, andava riproducendo i fasti della paralisi. 

Frankie, lasciati i resti ai sacchi, decise che era l'ora. riparò quel poco di disordine accumulato al sangue e scelse il balcone in sala.

Vbz




 



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