21 ottobre, 2014

Umido grasso infrangibile, di vitobenicio zingales


Umido grasso infrangibile

era una di quelle giornate che non ci sarebbe stato nulla da fare. una di quelle che, colpo su colpo, s'appiccica alle cose per fare posto alle cose che tornano, una di quelle che senti rancido al solo sentirla al tatto. avrebbe contato le ore, i minuti e i secondi passare. uno dietro l’altro, come fanno le cose che indovinano il quando delle cose che godono a sottrarre. lenti fotogrammi. a scatti, come irrimediabili getti di implacabile rimorso. avrebbe sopportato il silenzio farsi rancore, in giro per casa. e le penombre, intonacate alle conversazioni dei vicini di scala, aggiudicarsi l’ultimo appalto in fondo allo stomaco. avrebbe sopportato il silenzio farsi buio, stopposo e pateticamente permeabile ... guardone, famelico e mordace. e il caldo diluirsi tra gli aggettivi di quella insopportabile grammatica immorale. avrebbe sopportato perfino sua madre al telefono, qualora la vecchia avesse ricordato di possedere per caso una figlia. si, le avrebbe sopportate tutte. indistinti, indeclinabili e morigerati scontrini di cassa. in fondo, nel suo sangue, c’era tanto di quel posto che chiunque, a turno, avrebbe potuto pompare la sua parte di schifo. e lei era stata addestrata per bene, a dovere. educata a prenderlo, quello schifo, da brava e senza farne mistero. come una di quelle a cui basta un comando e un semplice richiamo al guinzaglio.
 
con i suoi quarant’anni, da poco strisciati sul tornaconto dei suoi debiti estetici.

era una di quelle stronze giornate che non ci sarebbe stato tempo per trovare il tempo di chiudere gli occhi. e quel ripetersi, neutro eterno, l’avrebbe avuto tutto dentro, in quella stanca parentesi di compassionevoli lasciti. dalla mattina, con le cose che fanno lento, alla sera, con quel “lento” che le cose le sanno fare per bene. ad arte, lavorandosi il particolare, ai fianchi, senza sprechi. né additivi morali. come uno di quei cazzotti che t’affogano in pancia e ti levano l’aria dal midollo degli occhi. uno di quelli che ti ritrovi col cuore sfondato per non aver imparato che, tanto vale, a quel punto, essere troia e fare puttana. così, anche a ribasso. sottocosto, alla svelta, come quando "il consacrarsi" lo si prende per noia, per soldi o per santo dovere.

era una di quelle che il mondo maneggia senza quella elementare cura dovuta. era una di quelle vite che te ne saresti accorto solo se fosse finita schiantandosi di fianco i trafiletti della santa cronaca sportiva. uno di quei vestiti che, solo per caso o solo perché dannatamente a saldo, lo vedi in fondo alla periferia dei tuoi irrisolvibili pruriti. una vita alle corde. all’angolo. un'esistenza, a perdere. una vita più che sottovuoto: sottoniente. 
 
“chiudo per rinnovo locali.”

una di quelle che se ti va bene, la fotti, la crepi e la regali senza giustificare l'incarto. punto. e a capo.

spudorata, pornografica circostanza all’ingrasso.

che potrebbe crepare, in quel cazzo di quel qualsiasi cazzo di giorno in città e sarebbe solo una stronza perdita di tempo. dagli sbirri, per atto dovuto, ai congiunti eventuali, per ipocrita circostanziale pretesto.
 
quinto piano, scala “a”,  interno “b”. nella solita terra di mezzo, di cemento e di edulcorato altrettale, civico progresso. cancelli, lucchetti e minchiate. prospettive di lato e, di traverso, solo aborti di fiato. e di sotto, solite adunanze di puttane e consuete geometrie di scopate a tempo. nell’ossidarsi caldo: periferica, magnifica, osannata città.

la sua vita, inessenziale postulato, rudimentale epitome. una di quelle che servono alla solita puttana miseria degli altri e a ribadire la differenza che passa tra chi la prende e chi invece la spinge. era stata concepita così, per chissà quale affronto o debito del cazzo e per chissà quale banco dei pegni messo su apposta per lei, senza il cristo di un abbordabile dio a cui raccomandarsi. una vita alla prova che se sgarri, “zaac!”, fine della storia. e ricominci, frangibile, dal senso di quel maneggiare irriverente e scomposto.

scompaginata goccia di umido infrangibile.

avrebbe cominciato dal suo spazzolino da denti, dal cesso. alle 6 punto 30, tra incisivi e risciacqui. dall'alba, tra miracoli di capsule e uno strofinarsela a fondo. là dentro, al mattino, la sua faccia era solo per presa visione. dentro a quel riflettente incorruttibile bisturi erano i consueti indeclinabili aromi del danno. la sua era ... sdrucciolevole vita. a pezzi, passo dopo passo, sulle cose che frutta il ghiaccio: c'inciampi e il mondo ci ride a creparsi. un odioso piano di riparto, quel disastroso bilancio finale di liquidazione.

sulla panca, all’ingresso, la sua borsetta, come la sua esistenza, era in attesa e se avesse guadagnato uno spazio,  avrebbe deciso per l’avanzo di pizza.

quinto piano. scala a. interno b. trenta metri quadrati di inconcepibili pretese.

in fondo le sarebbe bastata una di quelle vite, escluse le rampe.

nuda, nel buio. scavalcò adiposi risentimenti e indifendibile ringhiera, con grazia.

nessuno si accorse di quel particolare volo nel cielo. nel buio, quando è caldo, certe vite non puzzano di niente. 

provò solo come uno spezzarsi d’ossi. secco. come di cristallo. rigurgitò un po’ del suo sangue. non provò dolore. sorrise. poi pianse. finendo.

dal quinto piano.

ebbe solo il tempo di chiudere gli occhi.

vbz 

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